Ristrutturazione deducibile al 5% e senza Iva se lo studio non è di proprietà
L’ordinanza 7226/2020 della Cassazione: sgravio al 5% del costo complessivo dei beni materiali ammortizzabili
Le spese di ristrutturazione dello studio professionale, qualora l’immobile non sia di proprietà del professionista, non sono integralmente deducibili nell’anno, ma soltanto nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili. L’eccedenza si può sfruttare in quote costanti nei 5 anni successivi. Inoltre, se l’immobile è abitativo e viene utilizzato senza alcun contratto di comodato o locazione, non spetta la detrazione Iva su tali spese. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 7226/2020.
Il Fisco aveva recuperato a tassazione le spese di ristrutturazione, integralmente dedotte nell’anno oggetto di controllo da parte di un avvocato, per interventi sull’immobile adibito a suo studio professionale, ma non di proprietà: secondo l’Ufficio, infatti, solo una parte era deducibile nell’anno; inoltre, non spettava la detrazione Iva.
In base all’articolo 54, comma 2, ultimo periodo, del Tuir, le spese relative all’ammodernamento, alla ristrutturazione e alla manutenzione di immobili utilizzati nell’esercizio di arti e professioni, che per le loro caratteristiche non sono imputabili ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili, nel periodo d’imposta di sostenimento, nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili, quale risulta all’inizio del periodo d’imposta, e l’eccedenza è deducibile in quote costanti nei cinque periodi d’imposta successivi.
La Cassazione, con la sentenza odierna, ha stabilito che la circostanza che il contribuente non sia titolare di diritti reali dell’immobile non incide sulla disciplina delle deduzioni sopra esposta; la norma infatti fa esclusivo riferimento alle «spese relative all’ammodernamento, alla ristrutturazione e alla manutenzione di immobili utilizzati nell’esercizio di arti e professioni» senza distinguere gli immobili di proprietà del contribuente da quelli, di proprietà di terzi, condotti in locazione dal professionista o utilizzati ad altro titolo; era legittimo, quindi, nel caso di specie, il recupero a tassazione operato dal Fisco (sulla stessa questione si veda anche Cassazione 11907/2019, che sembra però pervenire a differenti conclusioni).
Più articolata è la questione ai fini dell’Iva: in base all’articolo 19-bis1, comma 1, lettera i), del Dpr 633/1972, non è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto di fabbricati a destinazione abitativa né quella relativa alla locazione o alla manutenzione, recupero o gestione degli stessi, salvo che per le imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la costruzione dei predetti fabbricati o delle predette porzioni.
Pertanto, il contribuente, che non sia un’impresa edilizia, se vuole portare in detrazione l’Iva sull’acquisto o manutenzione di fabbricati abitativi, deve dimostrare non solo l’inerenza e la strumentalità dell’immobile alla sua attività, ma anche l’intervenuta mutazione della categoria catastale abitativa, in quanto esclusa da quelle ammesse alla detrazione Iva (ex pluris, Cassazione 10264/2017, 6883/2016).
Nel caso oggetto della Cassazione 7226/2020, non soltanto l’immobile era pacificamente di tipo abitativo, in quanto accatastato in categoria A/2, ma non era neppure detenuto dal professionista in base a un titolo giuridico (cioè sembra che non fosse stato stipulato alcun contratto di comodato o di locazione), sicché - secondo la Suprema Corte - non poteva ravvisarsi alcun nesso di inerenza (cfr. Cassazione 418/2013); da qui il disconoscimento della detrazione Iva.
Giampaolo Giuliani
Dossier e monografie