Ritardi irragionevoli, l’ufficio deve pagare anche gli interessi
La Corte Ue, nella sentenza pregiudiziale interpretativa di ieri resa nella causa C-254/16 sollecitata da un giudice comunitario si è occupata della compatibilità comunitaria di una norma di legge ungherese che prevede che un soggetto passivo non maturi il diritto agli interessi sul credito Iva chiesto a rimborso in caso di sua mancata cooperazione e di irrogazione di una sanzione per tale condotta. La Corte, prima di formulare il principio di diritto applicabile da parte del giudice nazionale, ha ricordato come, sulla base anche di precedenti pronunce (citate nella sentenza):
■ sebbene l’articolo 183 della direttiva Iva non preveda l’obbligo di versare interessi sull’eccedenza di Iva a credito né il dies a quo di decorrenza degli interessi stessi, tale circostanza non lascia comunque liberi gli Stati membri di regolare il rimborso dell’eccedenza di Iva senza tener conto dei principi di funzionamento dell’Iva stessa;
■in particolare, non deve essere leso il principio della neutralità fiscale gravando il soggetto passivo, in tutto o in parte, del peso di tale imposta, dovendo invece assicurare al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, il credito Iva senza esporlo a rischi finanziari;
■quando il rimborso al soggetto passivo del credito Iva ha luogo al di là di un termine ragionevole, il principio della neutralità del sistema fiscale dell’Iva richiede che le perdite finanziarie così generate siano compensate dal pagamento d’interessi di mora.
Richiamati questi principi, la Corte ha quindi concluso che «non possono essere considerate compatibili con le esigenze derivanti dal principio della neutralità fiscale le normative o prassi nazionali ai sensi delle quali il mero fatto che il soggetto passivo sia stato condannato a un’ammenda che sanzioni la sua carenza di diligenza nella verifica fiscale della quale era oggetto consenta all’amministrazione tributaria di prorogare la suddetta verifica per un periodo non giustificato da tale carenza di diligenza, senza dovergli corrispondere interessi di mora». Questo principio, benché affermato nel giudizio pregiudiziale sollecitato da un giudice nazionale, opera come criterio interpretativo in tutti gli ordinamenti Ue in considerazione del carattere astratto e della funzione di assicurare l’uniforme applicazione della normativa.
Quanto all’Italia, l’articolo 38-bis, comma 1, del Dpr 633/1972 prevede che sulle somme corrispondenti al credito Iva chiesto a rimborso gli interessi siano applicabili dal novantesimo giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, «non computando il periodo tra la data di notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna, quando superi quindici giorni». Anche l’ordinamento italiano dispone dunque una sospensione della maturazione degli interessi sulla base di una sorta di presunzione di volontà di non cooperazione superati i 15 giorni. Alla luce della interpretazione della Corte Ue, si potrebbe ipotizzare che le richieste documentali siano idonee a interrompere la maturazione degli interessi se effettivamente necessarie a eseguire l’istruttoria per il rimborso. Diversamente, il diniego potrebbe considerarsi lesivo del principio di neutralità dell’Iva. Peraltro, la gli interessi maturati sull’Iva chiesta a rimborso e non corrisposti d’ufficio, possono essere chiesti a rimborso con la procedura dell’articolo 21 del Dlgs 546/1992 e l’impugnazione del relativo diniego (espresso o tacito) è soggetta alla giurisdizione delle Commissioni tributarie.