Se l’infondatezza dell’atto è parziale l’imposta va rideterminata
Il processo tributario va interpretato non come un’impugnazione finalizzata all’annullamento, ma bensì come una confutazione di merito, in quanto non si limita a ottenere l’eliminazione dell’atto impugnato, ma è volta a ottenere una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’agenzia delle Entrate e della dichiarazione presentata dal contribuente. Di conseguenza, il giudice tributario che riconosce la parziale infondatezza (ma non la totale nullità) della pretesa tributaria dell’ufficio finanziario, non può limitarsi ad annullare un atto impositivo, essendo tenuto a quantificare l’equa pretesa tributaria, sebbene entro i limiti rappresentati dai “petita” delle parti.
A tale conclusione è giunta la Corte di cassazione attraverso l’ordinanza n. 29881/2017, depositata in cancelleria il 13 dicembre 2017. L’agenzia delle Entrate ha presentato ricorso per la cassazione della sentenza emessa dalla Ctr dell’Emilia Romagna, in una controversia proposta da una spa avverso una cartella di pagamento relativa a Irpef, Irap e ritenuta alla fonte per l’anno 2001 la quale, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato «non dovuta l’imposta richiesta».
Il giudice di appello, sulle considerazioni che l’agenzia delle Entrate non aveva provato lo sgravio operato dall’ufficio di Ivrea, che l’importo della cartella risultava essere diverso da quello effettivamente dovuto e che non era stata emessa alcuna nuova cartella, aveva dichiarato «non dovuta l’imposta richiesta».
Il collegio di legittimità ha ritenuto di accogliere il ricorso per violazione e falsa applicazione del Dlgs. n. 546 del 1992, articoli 1 e 2, in quanto la Ctr ha proceduto all’integrale annullamento della cartella impugnata e non alla rideterminazione dell’imposta, pur avendo riconosciuto l’esistenza di una residua pretesa fiscale dovuta dalla società a seguito degli sgravi disposti dall’amministrazione finanziaria.
A parere dei giudici costituisce “ius receptum” della Corte suprema l’affermazione per la quale il processo tributario va declinato non come impugnazione di annullamento, ma bensì come impugnazione di merito, in quanto non circoscritta alla eliminazione dell’atto impugnato, ma diretta a una pronuncia di merito sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria (così come della dichiarazione resa dal contribuente).
Pertanto, il giudice tributario che ravvisi la parziale infondatezza - non anche, evidentemente, l’assoluta nullità - della pretesa fiscale dell’amministrazione, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma è tenuto a quantificare la corretta pretesa tributaria, sia pure entro i confini tracciati dai “petita” delle parti (Cassazione n. 25317/2014, 11935/2012 sentenza n. 11949 del 2012; cfr. sentenza n. 15038 del 2014, n. 21759 del 2011, n. 13868 del 2010, n. 25376 del 2008, n. 11212 del 2007, n. 13816 del 2003).
Nella circostanza in esame la Ctr non solo non ha applicato i menzionati principi ma, contraddittoriamente, da un lato ha assunto che non sarebbe stato provato lo sgravio parziale, affermazione che farebbe propendere per una conseguenziale pronuncia di debenza dell’intero importo portato in riscossione, ma dall’altro ha inopinatamente dichiarato integralmente non dovuta l’imposta.