Sì all’esenzione da ritenuta interna anche se il dividendo non è tassato
Primo precedente di Cassazione in senso non restrittivo
Cambio di rotta della Cassazione sull’esenzione da ritenuta prevista in base alla direttiva madre-figlia. O, almeno, così auspicano multinazionali e fondi di private equity: la sentenza 2313 del 31 gennaio 2020 contraddice infatti l’approccio restrittivo di alcune precedenti pronunce che hanno negato il beneficio.
Tra queste le sentenze 32255 del 13 dicembre 2018 e 25490 del 10 ottobre 2019, secondo le quali, in caso di distribuzione di dividendi, l’esenzione da ritenuta interna, ai sensi della direttiva, non sarebbe applicabile se il dividendo non è stato effettivamente tassato nella giurisdizione della società madre. Entrambi i casi avevano riguardato la distribuzione di dividendi a società madri lussemburghesi, dividendi assoggettati a ritenuta/imposta sostitutiva, poi richiesta a rimborso in base alla direttiva, a cui è seguito il diniego del Centro operativo di Pescara.
Il principio alternativo
Il ripensamento potrebbe arrivare dalla sentenza 2313. Il caso riguarda una società residente nel Regno Unito che aveva percepito dividendi da società controllate con sede in Italia. La società aveva chiesto il rimborso del credito d’imposta ex articolo 10, paragrafo 4, della convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito. A seguito del diniego da parte dell’Agenzia, la società aveva fatto ricorso, perdendo sia in Ctp che in Ctr. In particolare, la Ctr Pescara (397/2013) aveva motivato la propria decisione sulla base del fatto che il rischio di doppia imposizione era stato eliminato con l’esonero da ritenuta ex articolo 27bis Dpr 600/1973, in attuazione della direttiva madre-figlia, per cui il rimborso del credito previsto dalla Convenzione non era dovuto.
La Suprema corte ha cassato con rinvio la decisione della Ctr sancendo che la questione va analizzata «alla luce del principio, di matrice eurounitaria, della neutralità della tassazione in rapporti transnazionali». L’articolo 4 della direttiva prevede che la percezione dei dividendi debba essere fiscalmente neutra per la società madre. Solo così si evita che questa subisca un trattamento deteriore rispetto a quello applicabile qualora le due società fossero residenti dello stesso Stato (così anche la Corte di giustizia Ue nella sentenza del 19 dicembre 2019, causa C-389/18). L’esenzione da ritenuta elimina la doppia imposizione giuridica ma non necessariamente la doppia imposizione economica, che richiede un’analisi del meccanismo di tassazione in capo alla società madre, non svolto dalla Ctr. In assenza della verifica permane il rischio di violazione della neutralità fiscale.
Le possibili ricadute
Il principio è applicabile anche alle fattispecie trattate nelle richiamate sentenze 25490 e 32255. Infatti, l’applicazione di una ritenuta sul dividendo sarebbe contraria al principio di neutralità della direttiva in quanto gli utili sconterebbero prima l’Ires e poi la tassazione in sede di distribuzione, generando doppia imposizione economica.
La stessa agenzia delle Entrate aveva condiviso questa posizione nell’interpello 57/2019 sulla distribuzione di dividendi da società italiana a una holding svizzera, ex articolo 15 dell’Accordo del 26/10/2014 fra Svizzera e Ue che si basa sugli stessi principi della direttiva madre-figlia. Le Entrate avevano confermato, in presenza degli altri requisiti, il diritto all’esenzione da ritenuta anche se in capo alla holding svizzera i dividendi soggiacevano a un regime analogo alla participation exemption italiana. Come a dire, basta che la holding svizzera sia liable to tax e non che il dividendo sia effettivamente tassato.
L’incertezza
La posizione della Cassazione rimane, comunque, incerta dato che in una recentissima sentenza (2617 del 5 febbraio 2020) nel negare il diritto al rimborso del credito d’imposta in base alla convenzione Italia-Regno Unito, sembra richiamare quale necessario presupposto anche per la direttiva l’effettiva soggezione a tassazione del dividendo in capo alla società madre. Considerato che presto o tardi a livello comunitario questa posizione dovrebbe essere oggetto di censura, se la Cassazione non rivedrà a breve e in via definitiva la propria posizione, l’Agenzia dovrebbe confermare quanto già affermato con l’interpello 57/2019 in modo da permettere una corretta applicazione della direttiva anche in Italia ed evitare il rischio di scoraggiare investimenti esteri nel nostro Paese.
Le indicazioni dei giudici e del Fisco
1. La cassazione
Secondo la Cassazione (sentenza 25490 del 2019) il contribuente non aveva dimostrato che la sede di direzione effettiva era in Lussemburgo in quanto:
1. non aveva provato che il consiglio di amministrazione si fosse mai riunito in Lussemburgo;
2. non erano stati prodotti i relativi verbali del Cda;
3. non era stato dimostrato quali decisioni fossero state assunte nell’interesse strategico della società;
4. non si era mai dato conto dell’esistenza di uffici per i quali fossero state sostenute spese documentate in bilancio.
I certificati emessi dalle autorità fiscali estere non sono sufficienti a provare la sede di direzione effettiva e la spettanza dei benefici convenzionali. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento (Cassazione 25490/2019).
2. La circolare
Secondo la circolare 6/E del 2016 dell’agenzia delle Entrate sono indici di mancanza di sostanza economica:
● una struttura organizzativa “leggera” (ad esempio il personale, i locali e le attrezzature potrebbero risultare messe a disposizione da società domiciliatarie attraverso contratti di management service), priva di effettiva attività e di una reale consistenza e, in concreto, senza autonomia decisionale se non dal punto di vista formale (ad esempio il piano di gestione dell’investimento è predeterminato e la società si configura come mera ratificatrice ed esecutrice del medesimo);
● una struttura finanziaria passante in cui fonti e impieghi presentano condizioni contrattuali ed economiche quasi del tutto speculari o comunque funzionali a consentire la corrispondenza tra quanto incassato sugli impieghi e quanto pagato sulle fonti.