Controlli e liti

Società di comodo, la doppia presunzione opera a catena

La Cassazione con l’ordinanza 4946/2021 torna sul tema delle società non operative e del rapporto tra le presunzioni

di Dario Deotto

Ancora un po’ e (forse) ci siamo. La disciplina delle società non operative (o di comodo) racchiude una duplice presunzione legale: alla prima (presunzione) di non operatività «il legislatore correla una seconda presunzione di reddito minimo». In questo senso si esprime la Corte di cassazione, con ordinanza 4946/2021 depositata il 24 febbraio.

Poi la Corte però si “perde” facendo riferimento alla norma delle società di comodo come norma antielusiva e alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei valori minimi come possibile prova contraria del contribuente, però l’inquadramento iniziale fatto dalla Cassazione è il primo, a quanto ci consta, che incomincia ad essere “rispettoso” del problema delle società non operative.

Viene infatti riportato dall’ordinanza 4946 che la disciplina stabilita dall’articolo 30 della legge 724/1994 «mira a disincentivare la costituzione di società di comodo, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schermo societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali».

Viene anche fatto riferimento all’articolo 2248 del Codice civile, ovvero alla norma di chiusura, di fatto, della definizione del contratto societario, attraverso la quale, in sostanza, si vuole stabilire che se i beni e i servizi conferiti dai soci risultano strumentali rispetto al godimento dei soci, anziché rispetto all’attività economica propria del rapporto societario, si ha «comunione a scopo di godimento» e non «società». La finalità di deterrenza della norma delle società di comodo si realizza – stabilisce la Corte – «attraverso la fissazione di standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali, il cui mancato raggiungimento costituisce indice sintomatico del carattere non operativo della società».

Fin qui ci permettiamo di dire che la pronuncia rispecchia ciò che più volte si è scritto su Il Sole 24 Ore, e cioè che, in mancanza di adeguate risposte da parte della giurisprudenza civilistica al fenomeno delle società di comodo, è stato, di fatto, il legislatore fiscale ad intervenire, cercando di contrastare tale fenomeno attraverso una tassazione “dissuasiva” della scelta di utilizzare un involucro societario al quale vengono intestati beni ritenuti non afferenti un’attività economica. Questo peraltro è stato confermato anche dall’agenzia delle Entrate nelle circolari 5/E/2007 e 7/E/2013 (paragrafo 6).

In sostanza, la norma dell’articolo 30 della legge 724/1994 stabilisce, attraverso il «test di operatività», che individua il raggiungimento di determinati ricavi minimi, la presunzione che il soggetto possa risultare «non operativo» (o di «comodo»). Si tratta di una presunzione basata sul presupposto che determinati beni del patrimonio societario (immobili, partecipazioni, crediti, eccetera) sono normalmente in grado di produrre “frutti” (ricavi), così che l’inserimento dei medesimi in un contesto societario rafforza la presunzione di un loro impiego ai fini reddituali.

L’omessa dichiarazione di un determinato ammontare fa, in sostanza, sorgere il sospetto di un occultamento, di una simulazione dello schermo societario, con la conseguenza della presunzione di un reddito minimo forfettario determinato avendo a riguardo agli stessi beni del patrimonio societario.

Correttamente, la Cassazione afferma quindi che la norma individua due presunzioni legali (in precedenza anche tre, secondo la Corte) – come si è sempre riportato su Il Sole 24 Ore: alla prima presunzione di non operatività, data dal test di operatività, segue quella del reddito minimo.

In sostanza, il «test di operatività» e il conseguimento di perdite fiscali (quest’ultime impropriamente) rappresentano il «fatto noto» che si ricollega al «fatto» presunto di considerare la società come «non operativa». Se questa presunzione trova applicazione – perché non si fornisce la prova contraria - può trovare applicazione la successiva presunzione di cui al comma 3 del citato articolo 30, secondo cui, per gli enti non operativi, «si presume che il reddito del periodo d’imposta non sia inferiore a …» (oltreché quella, stabilita dal successivo comma 3-bis, sul valore della produzione netta ai fini Irap «minima»).

Si tratta, in sostanza, di presunzioni legali cosiddette “a catena”, e ciò risulta confermato chiaramente dal dato letterale della norma.

Dove tuttavia la Cassazione sbaglia è quando afferma che il contribuente deve fornire la prova contraria (alla prima presunzione) delle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi minimi (erra inoltre la Corte nel definire, in alcuni passaggi, la norma come disposizione antielusiva). Le oggettive situazioni assumono infatti rilevanza (quale preventivo filtro amministrativo valutativo) soltanto nei rapporti delle società con l’Amministrazione finanziaria, ma non limitano i contenuti del ricorso giudiziale e la prova contraria che le società possono fornire in sede contenziosa.

Occorre infatti rilevare che le oggettive situazioni che impediscono il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi non necessariamente coincidono con la presunzione di (non) operatività. In altri termini, è bene notare che solo per la vicenda dell’interpello la norma richiama le oggettive condizioni che hanno impedito il conseguimento dei valori minimi.

Dalla norma emerge, in sostanza, una sorta di disallineamento: nel filtro amministrativo dell’interpello (se lo si presenta) si deve dare dimostrazione delle situazioni oggettive che hanno impedito il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi, mentre nell’eventuale fase processuale successiva occorre fornire prova che la società svolge un’effettiva attività economica e che, quindi, non abusa della persona giuridica, oppure della impossibilità oggettiva a svolgere detta attività economica.

Il contribuente che non supera il «test di operatività» ha, quindi, dapprima l’onere di dare dimostrazione della propria operatività, dando prova di avere compiuto degli atti economici propri di un’attività imprenditoriale secondo l’impostazione dell’articolo 2247 del Codice civile sul contratto di società, che si differenza, come rilevato in precedenza, dalla comunione a scopo di godimento. Se tale prova viene fornita non può, evidentemente, trovare applicazione la seconda presunzione, legata alla dichiarazione dei valori minimi, trattandosi – come è stato riportato – di presunzioni legali cosiddette «a catena».

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