Controlli e liti

Società di comodo, non tocca al giudice valutare la «sfortuna»

L’inettitudine esclude le penalità ma la Corte dovrebbe solo valutare se la società è operativa

di Dario Deotto

Il fato – quando avverso – e l’inettitudine produttiva rappresentano delle (valide) oggettive situazioni in grado di superare la presunzione delle società di comodo. Questo è, in sostanza, il principio che deriva dall’ordinanza 23384/21 dell’agosto scorso della Cassazione, giudicata da più parti positivamente, s’immagina per l’esito favorevole al contribuente.

È il caso, tuttavia, di esaminare questa pronuncia con più attenzione. In primo luogo, occorre rilevare che la Corte continua ad attribuire alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei valori minimi il valore di prova contraria (nel caso di specie: gli «eventi sfortunati» e l’«inettitudine produttiva») che il contribuente deve fornire avverso la presunzione di legge. È un evidente errore – come riportato nel Principio di interpretazione n. 2/2021 del Modulo 24 Accertamento e riscossione del Sole 24 Ore – in quanto le oggettive situazioni, in base alla norma di legge, sono da dimostrare solo in caso di presentazione dell’interpello, mentre avanti al giudice la società deve dare prova che svolge un’effettiva attività economica (o dei motivi per i quali non può svolgerla) e che, quindi, non abusa della persona giuridica. Anche perché limitare la prova contraria alle oggettive situazioni di impedimento al conseguimento dei ricavi minimi risulterebbe chiaramente illegittimo, nell’ottica dell’articolo 24 della Costituzione.

C’è poi la questione del fato avverso e dell’inettitudine produttiva. Il «concentrarsi di eventi sfortunati» può essere considerato – secondo i giudici – idonea prova contraria per superare la presunzione. Qui si pone una prima domanda. Premesso che il destino è ciò che sfugge alla logica della ragione (i giudici si riferiscono a ragioni estranee alla volontà del soggetto), qual è la “latitudine” di un evento sfortunato? E soprattutto: si è davvero sicuri che questa valutazione spetti al giudice? Che è, poi, il medesimo interrogativo che occorrerebbe porsi in relazione alla «inettitudine produttiva», che viene identificata – dalla Cassazione - non nella «mancanza di volontà dell’imprenditore (...) quanto alla incapacità dello stesso a raggiungere determinati risultati, voluti, ma non conseguiti per un suo deficit di capacità».

Nuovamente: chi è che deve valutare questo deficit? In base a cosa? In base forse al reddito o, ancora peggio, in relazione ai ricavi minimi, quando è arcinoto che i coefficienti del test risultano “gonfiati” dalle esigenze di gettito? È evidente che non sono tali “valori” a fare il “buon imprenditore”, né tantomeno il risultato economico di un singolo esercizio. Con la considerazione di fondo che la valutazione sulle capacità imprenditoriali non può certo essere fatta da un giudice. Nel caso delle società di comodo, questi deve solo valutare se la società abusa o meno della persona giuridica.

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