Spese di ristorazione, deduzione dei costi con l’indicazione dei fruitori
Far emergere i nominativi consente di evitare contestazioni anche ai fini della detraibilità Iva
Ai fini della deducibilità delle spese alberghiere e di ristorazione e della detraibilità dell’Iva a esse afferente è necessario che nel documento contabile o in una nota allegata sia indicato il nominativo dei fruitori delle prestazioni e la motivazione, se rese a soggetti diversi dal committente. Lo ha stabilito la Cassazione, con l’ordinanza 35925/2021.
Inerenza: un problema di onere probatorio
Più volte anche su queste pagine è stato osservato che la deduzione dal reddito d’impresa di componenti negativi deriva dalla configurazione unitaria del procedimento di determinazione del reddito d’impresa, sicché la deduzione dovrebbe essere una conseguenza automatica della spesa o del costo, piuttosto che un diritto del contribuente (si veda “Componenti negativi del reddito di impresa, su chi grava la prova dell’inerenza?”, Deotto, 10 giugno 2021).
Secondo la Suprema corte, invece, il contribuente può portare in deduzione dal reddito d’impresa i costi e le spese soltanto quando sia un grado di provare la sussistenza del suo diritto e, in particolare, per quel che qui interessa, l’esistenza di un nesso di inerenza con l’attività esercitata.
Più precisamente, la Cassazione ha reiteratamente stabilito che grava sul contribuente che intende dedurre un costo l’onere di offrire la prova, ai fini della deducibilità, dell’inerenza, intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità, coerenza e correlazione, non già ai ricavi in sé, ma all’attività imprenditoriale svolta e, quindi, di provare e documentare l’imponibile maturato, ossia l’esistenza e la natura dei costi, i relativi fatti giustificativi e la loro concreta destinazione alla produzione (tra le ultime, Cassazione 27657/2021).
È ben vero che più di recente gli Ermellini hanno finalmente convenuto che il requisito di inerenza non è rinvenibile nell’articolo 109, comma 5, del Tuir, ma si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi e attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo (tra le ultime, Cassazione 20420/2021), ma ciò non ha mutato la consolidata posizione della Suprema corte, per cui spetta al contribuente superare una sorta di test di inerenza per poter dedurre le spese e i costi riguardanti la sua attività d’impresa.
Non solo nominativi, ma anche motivazioni della fruizione
Forti di queste premesse giurisprudenziali, con la Cassazione 35925/2021, i supremi giudici hanno concluso che, al fine di poter beneficiare sia della detrazione dell’Iva che della deducibilità delle spese alberghiere e di ristorazione, occorre che le spese siano inerenti all’attività svolta dall’impresa. Nell’ipotesi in cui la prestazione alberghiera o di ristorazione è fruita da un soggetto diverso dal committente del servizio, occorre, al fine di giustificare l’inerenza, “l’indicazione nel documento contabile (o in nota allegata) dei soggetti che hanno beneficiato della prestazione di vitto e alloggio e delle motivazioni della fruizione”. Erroneamente, pertanto, i giudici di merito avevano ritenuto che fosse irrilevante l’indicazione dei soggetti fruitori dei pasti.
Si tratta di una decisione conforme a un arresto di qualche anno fa, con cui era già stata negata la deducibilità, per mancanza della prova di inerenza, delle spese relative a fatture di pasti prive dell’indicazione dei nominativi dei fruitori, in assenza di altri documenti alternativi che consentissero di identificarli (Cassazione 31086/2019).
Tali conclusioni, peraltro, sono state avallate anche da una parte della giurisprudenza di merito (Commissione tributaria di primo grado Trento, sentenze 21/2020 e 157/2017), mentre, per altra parte, l’indicazione dei nominativi dei commensali non è richiesta da alcuna norma, sicché la vicinanza dell’esercizio commerciale alla sede dell’impresa, il fatto che si tratti di pranzi e non di cene e il numero adeguato di commensali “sono tutti elementi che consentono di accertare, con una valutazione del ‘plaerumque accidit’, l’inerenza dei costi” (Ctr Milano, sentenza 2212/2018).
In linea con le conclusioni del supremi giudici appare anche la prassi dell’Amministrazione finanziaria, per cui, nel caso non vi sia coincidenza tra il soggetto che acquista il servizio nell’esercizio della propria attività d’impresa, arte o professione (ad esempio il datore di lavoro) e colui che materialmente ne usufruisce (ad esempio il dipendente), la fattura deve essere intestata al soggetto beneficiario della detrazione al fine di consentirgli l’esercizio del relativo diritto; i dati dei dipendenti fruitori della prestazione dovranno essere indicati nella fattura ovvero in una apposita nota ad essa allegata (circolare 6/E/2009, paragrafo 2).
Più di recente, l’agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che l’articolo 54, comma 5, primo periodo, del Tuir, concernente la determinazione del reddito di lavoro autonomo, e l’articolo 109, comma 5, quarto periodo, del medesimo Testo unico, concernente la determinazione del reddito d’impresa, prevedono la limitazione al 75% della deducibilità delle spese sostenute per prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande, ha evidenziato che il suddetto limite di deducibilità del 75% non opera per il committente per le spese sostenute per l’acquisto di prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande, di cui sono beneficiari i professionisti nel contesto di una prestazione di servizi resa al committente, imprenditore o lavoratore autonomo, ma ciò «presuppone, naturalmente, che sia dimostrabile l’inerenza della spesa rispetto all’attività del committente, l’effettività della stessa e che dalla documentazione fiscale risultino gli estremi del professionista o dei professionisti che hanno fruito delle prestazioni e somministrazioni» (circolare 31/E/2014, paragrafo 2.1).
Prova fondata su circostanze indiziarie
Qualche mese fa, invece, i giudici di legittimità avevano stabilito che il Fisco non può recuperare a tassazione le spese per i pasti relative a fatture che non recano il nominativo dei fruitori delle prestazioni, poiché tale omissione non priva del requisito di inerenza le spese, se la consumazione dei pasti avviene sempre presso gli stessi esercizi ubicati in luoghi in cui è svolta l’attività e con il medesimo numero di fruitori (Cassazione 11057/2021).
Anche in quella circostanza, quindi, gli Ermellini avevano addossato al contribuente l’onere della prova dell’inerenza, ma era stata considerata idonea una prova presuntiva o quantomeno sintomatica dell’inerenza, desumibile non in via diretta dall’indicazione dei nominativi dei fruitori emergenti dalla documentazione, ma da circostanze indiziarie della riferibilità di tali spese a soggetti afferenti all’impresa.
In conclusione, alla luce dell’odierna pronuncia di legittimità - Cassazione 35925/2021 - e della prassi in materia, è quindi opportuno e prudenziale far emergere i nominativi dei fruitori delle prestazioni in oggetto dalla documentazione contabile o da apposita nota allegata, nonché la motivazione di tali prestazioni, al fine di evitare contestazioni sulla deducibilità dalle imposte sui redditi e sulla detraibilità dell’Iva.
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