Adempimenti

Spesometro opzionale, la soglia di tracciabilità va elevata

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di Raffaele Rizzardi

Oggi scade il termine per esprimere telematicamente la scelta per la trasmissione dei dati di tutte le fatture, emesse nonché ricevute e registrate, cioè per un adempimento che, se non accettato per opzione, deve essere comunque eseguito per obbligo. È la prima volta che capita nel nostro ordinamento, e presumibilmente non esiste in nessun sistema giuridico, che il contribuente debba comunque svolgere un’attività nei confronti della pubblica amministrazione, il cui contenuto è assolutamente identico qualunque sia la manifestazione di volontà del cittadino.

Come fa notare anche Assonime nella sua circolare 8 del 24 marzo scorso, siamo arrivati a questa anomala confusione normativa, perché il decreto legislativo 127 del 2015 vedeva questa collaborazione con il fisco in termini premiali, concedendo il beneficio dei rimborsi Iva in tre mesi dalla dichiarazione e la riduzione dei termini di accertamento. Poi il Dl 193 dell’anno successivo introduceva lo stesso adempimento in termini obbligatori.

Quali vantaggi e quali inconvenienti ci sono ad esprimere l’opzione? Questa scelta è vincolante per cinque anni, ma qualsiasi opzione può essere revocata se il quadro di riferimento viene successivamente a cambiare, cosa che in questo ambito è altamente probabile. Assonime fa giustamente notare che la trasmissione dei dati delle fatture (a differenza del nuovo disposto per le liquidazioni periodiche) non è prevista da nessuna disposizione della direttiva comunitaria, e che la pretesa di comunicare anche le mitiche fatturine da dieci euro del pranzo di lavoro si scontra con il principio di proporzionalità, essendo ormai certo che il costo sociale di questo adempimento non potrà mai essere coperto dal recupero dell’evasione che non sarebbe altrimenti stata scoperta. E qui l’associazione delle società per azioni auspica che prevalga il buon senso e che si riesca ad evitare la trasmissione dei dati delle fatture inferiori a 300 euro.

Così come urta con la logica più elementare aver richiamato – ai fini della tracciabilità degli incassi e pagamenti, che condiziona la riduzione dei termini di accertamento per chi esprime l’opzione – l’importo di 30 euro non pagabile in contanti. Il Dm 4 agosto 2016, per qualificare questa condizione, richiama il Dm 24 gennaio 2014, il cui oggetto riguarda – è vero – l’uso dei contanti, ma che non ha niente a che vedere con le modalità operative dei soggetti di imposta. Il provvedimento del 2014 ha un solo significato: nessun imprenditore o lavoratore autonomo può rifiutare di essere pagato, per importi superiori a 30 euro, con bancomat o carta di credito, se il cliente lo vuole.

Ma non dice che il soggetto di imposta deve rifiutare le operazioni in contanti sopra tale importo. Come si può ipotizzare che le controparti di un imprenditore o di un lavoratore autonomo siano tutte dotate di strumenti di pagamento elettronici? Va condiviso quindi il parere dell’Assonime, che questa riforma deve essere riscritta facendo riferimento al divieto di pagamento in contanti per importi superiori a 3mila euro.

Torniamo ai disallineamenti tra spesometro analitico per opzione piuttosto che per obbligo. La legge aveva disposto la semestralizzazione nel 2017 solo per quest’ultimo, e opportunamente il provvedimento delle Entrate del 27 marzo scorso ha disposto per la coincidenza dei termini relativi a quest’anno.

C’è ancora una differenza per il regime sanzionatorio e per quello relativo alla correzione entro quindici giorni dalla trasmissione, ma con queste differenze siamo veramente caduti nella patologia del diritto, dalla quale sia auspica che si possa pervenire ad una pronta guarigione.

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