Controlli e liti

Successioni, franchigia slegata dalle donazioni

di Angelo Busani

Tra donazione e successione non si fa luogo a coacervo. Quindi, se Tizio (in ipotesi) ha donato al figlio Caio la somma di 800mila euro e poi Caio eredita da Tizio, l’imposta di successione si calcola considerando che Caio beneficia della intera franchigia di 1 milione di euro, senza dunque tener conto della donazione.

Lo decide la Ctp di Rimini nella sentenza 36/01/2018 del 9 febbraio scorso (presidente e relatore Rustico), la quale così aderisce all’orientamento espresso dalla Cassazione nella sentenza 24940/2016 (commentata dal Sole 24 Ore del 28 dicembre 2016), secondo cui nel nostro ordinamento l’istituto del cosiddetto “coacervo delle donazioni” non esiste più dall’entrata in vigore (10 dicembre 2000) dell’articolo 69 della legge 342/2000, il quale introdusse le aliquote fisse dell’imposta di successione, in luogo delle previgenti aliquote progressive: per ragioni di incompatibilità con il nuovo sistema di tassazione ad aliquote fisse, la norma sul coacervo ereditario (e cioè l’articolo, comma 4, Dlgs 346/1990) deve dunque essere considerata tacitamente abrogata dalla legge 342/2000.

La disciplina sul coacervo era “figlia” di un sistema nel quale l’imposta su successioni e donazioni era progressiva: in sostanza, disponendo di cumulare le pregresse donazioni in caso di ulteriore donazione o in caso di successione ereditaria, la norma sul coacervo era finalizzata ad evitare l’elusione che sarebbe conseguita a un artificioso “spezzatino” di donazioni. Ad esempio, senza una norma sul coacervo, un de cuius, invece di lasciare 100 alla propria morte, avrebbe potuto donare tante volte 10, in modo da approfittare, in ogni donazioni, dello scaglione esente da imposta o tassato con le aliquote inferiori.

Con il principio del coacervo, invece, al valore di una successiva donazione si doveva sommare il valore della donazione precedente; inoltre, il valore dell’attivo ereditario andava aumentato con il valore donato dal de cuius durante la propria vita; il tutto, non al fine di tassare di nuovo (in sede di successiva donazione o in sede di eredità) il valore fatto oggetto di coacervo, ma al “solo” fine di stabilire le aliquote applicabili al valore donato nella donazione successiva o al valore della massa relitta dal defunto come sua eredità.

L’articolo 8, comma 4 del Dlgs 346/1990 era dunque scritto con riferimento «ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili». Questa espressione è indubbiamente divenuta inadeguata con l’introduzione della tassazione proporzionale in luogo di quella progressiva; ma, essendo l’imposizione proporzionale comunque caratterizzata dalla presenza di una importante franchigia (1 milione di euro tra coniugi e parenti in linea retta; 100mila euro tra fratelli; 1,5 milioni di euro se l’avente causa è colpito da una grave disabilità), la linea interpretativa delle Entrate (circolare 3/E del 22 gennaio 2008, paragrafo 3.2.3) inevitabilmente seguita dai contribuenti prima della sentenza di Cassazione n. 24940, era quella di considerare tale espressione come riferita non più all’erosione degli scaglioni di valore imponibile tassati con le aliquote d’imposta inferiori, ma con riferimento alle “nuove” franchigie introdotte dalla legge 342/2000.

Questa lettura è stata dunque cassata dalla Suprema corte: dopo aver rilevato che «il “cumulo” non sortiva effetto impositivo sul donatum ma soltanto effetto determinativo dell’aliquota progressiva» è «conseguenza logica e coerente» che, eliminata l’aliquota progressiva «in favore di un sistema ad aliquota fissa»... «non vi fosse più spazio per dar luogo al coacervo».

Ctp di Rimini, sentenza 36/01/2018

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