Professione

Calderone: «Per aziende e lavoratori un ammortizzatore unico»

La presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro sottolinea la necessità di una collaborazione tra pubblico e privato nelle politiche attive

di Maria Carla De Cesari

Presidente Marina Calderone, nei giorni scorsi sono iniziati gli incontri del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, in vista della riforma degli ammortizzatori sociali. La cassa Covid ha messo in luce tante difficoltà da parte delle aziende nell’accedere all’aiuto per i lavoratori. Che cosa si deve fare secondo i consulenti del lavoro?

Nell’emergenza ci hanno imposto 25 modi per chiedere la stessa cosa, con la Cassa richiesta all’Inps, ai fondi di integrazione salariale, al Fondo artigiani e così via. E poi la cassa in deroga, inizialmente data in gestione alle Regioni, ciascuna con una procedura diversa per le domande, con la necessità di fare gli accordi sindacali con gli studi in zona rossa chiusi e i sindacalisti a casa. Se avessimo avuto un ammortizzatore unico con un gestore avremmo risparmiato tempo, avremmo limitato complicazioni e ritardi nei pagamenti e l’Economia avrebbe avuto con precisione il monitoraggio delle risorse. L’emergenza perdura e non possiamo pensare che gli studi, le aziende, ma neanche l’Inps, possano sopportare lo stress dello scorso anno. Occorre un ammortizzatore unico.

È finito al Tar il comportamento del Fondo artigiani che, pur avendo ricevuto i soldi dallo Stato, pretendeva l’iscrizione delle aziende per pagare la cassa. I consulenti hanno molte aziende artigiane tra i propri assistiti. Che ne pensa?

Non si sarebbe dovuta attribuire la gestione della cassa al Fondo artigiani, sono soldi dello Stato. È incomprensibile la polverizzazione degli interventi. Con la vicenda del Fondo artigiani è venuto al pettine uno dei nodi dovuto alla mancanza di un ammortizzatore unico.

Il blocco dei licenziamenti prima o poi sarà cancellato. L’emergenza nell’emergenza saranno le politiche attive.

È essenziale la collaborazione tra pubblico e privato. Abbiamo i centri per l’impiego con un organico di 9mila operatori. Troppo pochi. Occorre stabilizzare i navigator, che possono fare attività di animazione sul territorio. E poi occorre coinvolgere le agenzie per il lavoro.

A quali condizioni?

Un punto fondamentale è agire sui criteri di accreditamento per cui occorre trovare una cornice comune. Molti professionisti della Fondazione consulenti per il lavoro non possono gestire l’assegno di ricollocazione perché non riescono a tener dietro ai diversi requisiti regionali relativi, per esempio, all’accessibilità degli studi. Accade che ci sia un veto perché la porta dell’ascensore è di due centimetri più stretta di quanto richiesto. Ma l’emergenza non ci ha insegnato anche a lavorare e a fare i colloqui da remoto? Infine, la cabina di regia deve essere del ministero del Lavoro.

Contratti a termine: sono stati 400mila quelli persi per strada nel 2020. La deroga limitata sulle causali non è servita.

Occorre ripensare il sistema: per durate superiori ai 12 mesi le ragioni giustificatrici non possono fare riferimento a motivi di straordinarietà ed eccezionalità, che adesso sono previste dal decreto Dignità. Occorre una flessibilità più ampia.

Quali prospettive per lo smart working, soprattutto nelle Pmi?

Occorre puntare sulla misurazione della produttività e sull’organizzazione del lavoro attraverso la contrattazione aziendale e di prossimità. Nell’emergenza, abbiamo sperimentato un ibrido. A regime dovremmo capire quali profili può interessare lo smart working e con quale organizzazione, visto che richiede autonomia e responsabilità. Inoltre, andrà regolato il diritto alla disconnessione. Lo smart working dovrebbe tenere insieme gli obiettivi della competitività e quelli di conciliazione tra vita e lavoro. Non possiamo accontentarci di mischiare il tempo di cura familiare con il lavoro, altrimenti avremo un cattivo lavoro e famiglie senza supporti adeguati.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©