Fondi di investimento, accesso limitato alla direttiva madre-figlia
Un organismo di investimento collettivo a carattere fiscale (Oicf), assoggettato all’imposta sulle società ad aliquota zero a condizione che tutti i suoi utili siano distribuiti ai propri azionisti, non soddisfa i requisiti per beneficiare della direttiva madre-figlia sui dividendi percepiti da società residenti in altri Stati membri. Ciò in quanto, tale soggetto non soddisfa la condizione prevista all’articolo 2, lettera c), della direttiva 90/435/Cee (ora rifusa nella direttiva 2011/96/Ue, si confronti l’articolo 2, lettera a, numero iii) secondo cui dovrebbe essere assoggettato, senza possibilità di opzione e senza esserne esentato, a una delle imposte sul reddito delle società ivi elencate. Sono conclusioni della Corte di giustizia nella causa C-448/15 rese lo scorso 8 marzo e il cui impatto sulla operatività dei fondi di investimento potrebbe essere non trascurabile.
Va considerata una serie di aspetti. La tassazione dei fondi di investimento non può essere analizzata avendo riguardo esclusivamente per la tassazione applicata al fondo, ma deve aversi riguardo anche per la tassazione in capo ai quotisti del fondo stesso. È inoltre criticabile che una tassazione ad aliquota zero subordinata al soddisfacimento di precise e stringenti condizioni, possa essere assimilata al mancato assoggettamento ad imposta e quindi determinare la perdita dei benefici madre-figlia, specie considerando che nell’ambito del regime madre-figlia lo Stato di residenza della società madre è vincolato a riservare una tassazione pressoché nulla ai dividendi ricevuti dalla società figlia.
D’altronde, che la tassazione dei fondi di investimento ponga degli interrogativi complessi nella fiscalità internazionale, non è un mistero. Alcuni anni fa, le particolarità riguardanti l’applicazione ai fondi di investimento (identificati come Civs: Collective investment vehicles) delle Convenzioni contro le doppie imposizioni furono esaminate in sede Ocse e, a seguito di lunghe discussioni sfociate nel Report «The granting of treaty benefits with respect to the income of collective investment vehicles» del 12 gennaio 2009, i Paesi Ocse (molti dei quali sono membri dell’Unione europea) giunsero alle conclusioni ora rinvenibili nei paragrafi 6.12 e 6.13 del Commentario all’articolo 1 del modello Ocse. Di fatto, ciascuno Stato venne lasciato libero di adottare il proprio approccio all’interpretazione della locuzione «liable to tax» in relazione ai fondi di investimento: il paragrafo 6.12 riguarda quegli Stati che ritengono che i fondi di investimento non tassati perché rispondono a determinati requisiti siano comunque liable to tax, e il paragrafo 6.13 riguarda quegli Stati che invece ritengono che tali fondi non possano essere considerati liable to tax, ai quali, comunque, l’Ocse richiede di affrontare la questione nel corso delle negoziazioni. Anche per
quanto concerne le Convenzioni, dunque, la questione è tuttora non del tutto risolta.
È invero dubbio che la discussione occorsa in sede Ocse possa essere di ausilio per l’interpretazione della direttiva madre-figlia, posto che il tenore letterale della norma convenzionale e quello della direttiva divergono in maniera non trascurabile. Inoltre, l’unico soggetto legittimato ad interpretare il diritto dell’Unione europea è la Corte di giustizia, e una presa di posizione così netta da parte del supremo giudice comunitario costituisce un precedente difficilmente superabile, indipendentemente da qualunque dibattito dovesse avvenire nelle sedi internazionali, salvo che la Corte di giustizia ritenga – se all’uopo sollecitata – di rivedere il suo pensiero, ad esempio valorizzando il potenziale impatto della tassazione operata in capo ai quotisti del fondo, che potrebbe costituire un elemento differenziale di non poco conto.
Corte di giustizia, sentenza causa C-448/15