Adempimenti

La nuova e-fattura distingue le estrazioni da depositi con e senza Iva

Nuove regole per la gestione delle autofatture da emettere e trasmettere allo Sdi per estrarre i beni dal deposito Iva

immagine non disponibile

di Alessandro Matromatteo e Benedetto Santacroce

Le nuove specifiche tecniche della fattura elettronica licenziate dall’agenzia delle Entrate venerdì scorso (28 febbraio 2020) prevedono delle regole particolari per la gestione delle autofatture da emettere e trasmettere allo Sdi per estrarre i beni dal deposito Iva. In particolare, sono state individuate due distinte codifiche per tipologia dei documenti da utilizzare per distinguere le estrazioni che determinano l’obbligo di versamento dell’Iva all'uscita dal deposito (TD23) da quelle che non lo determinano (TD22).

La distinzione sulla codifica
La distinzione risulta importante perché nelle diverse pronunce dell’Agenzia (si veda, ad esempio, la risoluzione 55/E/2017) è stato ribadito che l’estrazione deve necessariamente seguire la causale che ha accompagnato l’introduzione dei beni in deposito. In effetti, il depositario e il depositante o i depositanti devono sempre tracciare i beni dal loro momento di introduzione fino a quello di estrazione e, a seconda della posizione dei beni al momento dell’introduzione, devono stabilire il regime dei beni all’uscita.

In particolare, se un bene è stato introdotto a seguito di importazione o di acquisto intracomunitario l’estrazione avverrà con autofattura e senza pagamento dell’imposta; al contrario, se i beni sono stati introdotti nel deposito Iva in connessione con una cessione nazionale l’estrazione dovrà necessariamente avvenire con versamento dell’Iva da parte del gestore per conto del soggetto che estrae la merce. Questo obbligo di tracciabilità se risulta semplice quando il bene è introdotto ed estratto dallo stesso soggetto, diventa molto più complicato nel caso in cui il bene venga estratto da un soggetto diverso da quello che aveva provveduto alla sua introduzione. In questo ultimo caso è proprio il depositario che ha il compito di tracciare la merce per evitare che il bene che esce non rispetti la predetta regola e che, in un certo verso, il regime non venga applicato correttamente.

Il nodo dell’invio allo SdI
Inoltre, per quanto riguarda l’autofattura di estrazione, a prescindere dal pagamento o meno dell’imposta, si pone il problema di comprendere se la stessa debba o meno essere obbligatoriamente inviata allo SdI. In effetti, sul punto è tornata in modo piuttosto dettagliato la circolare 14/E/2019. La circolare ha sottolineato che, in via generale, l’autofattura di estrazione, ovvero l’integrazione della fattura di cessione avvenuta nel deposito, non deve essere obbligatoriamente inviata allo SdI se non aggiunge elementi alla fattura elettronica di introduzione o di cessione ovvero, in caso di importazione, alla bolletta doganale o, in caso di acquisto intracomunitario, alla integrazione della fattura estera .

Al contrario, se tale documento provvede a incrementare il valore dei beni in dipendenza, ad esempio, delle prestazioni di servizio che il bene ha subito nel periodo di giacenza nel deposito Iva, l’autofattura deve essere necessariamente inviata allo SdI (si pensi ad esempio al caso più frequente che si verifica quando il valore dei beni debba essere incrementato del costo dei servizi del depositario).

Si parte dal 1 ottobre
In queste ipotesi, dal 1 ottobre 2020 sarà necessario utilizzare i predetti codici di identificazione della tipologia delle operazioni. Quindi se l’estrazione avviene con pagamento d’Iva (questo dovrebbe ricomprendere anche i casi in cui il pagamento avviene con utilizzo di lettera d’intento) l’operatore utilizzerà il codice TD23; al contrario se l’operazione non genera un pagamento di Iva allora si dovrà utilizzare il codice TD22.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©