Controlli e liti

Sì al conferimento d’azienda con cessione di quote

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di Marco Nessi e Roberto Torelli

In caso di conferimento di azienda seguito da cessione della partecipazione totalitaria nella società conferitaria, l’agenzia delle Entrate non può accertare una maggiore imposta di registro sulla base di un’artificiosa ricostruzione degli eventi, in quanto l’imposta in esame assume a riferimento i soli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione e non i relativi effetti economici. È questo il principio di diritto che è stato enunciato dalla Ctp di Milano nella sentenza 3639/1/2017 (presidente D’Orsi, relatore Chiametti). Sul riferimento ai soli effetti giuridici, in un caso simile ma non identico, si è espressa anche la Ctp Reggio Emilia con la sentenza 189/2/2017 (si veda Il Sole 24 Ore del 24 luglio scorso).

Nel caso esaminato dai giudici milanesi, che si può definire ormai classico, una società (A) conferiva in una neocostituita società (B) un ramo d’azienda e successivamente cedeva a una terza società (C) l’intera partecipazione detenuta nella società B.

L’agenzia delle Entrate notificava alle società cedente e cessionaria, in quanto obbligate in solido, un avviso di liquidazione ai fini dell’imposta di registro, con il quale, richiamando l’articolo 20 del Dpr 131/1986, riteneva che i distinti negozi giuridici posti in essere dalle parti (conferimento di ramo d’azienda e cessione di partecipazione) andassero qualificati in termini unitari quali “cessione d’azienda” con conseguente applicazione dell’imposta nella misura proporzionale del 3 per cento.

Contro l’accertamento le società ricorrevano al giudice tributario eccependo il fatto che le distinte operazioni poste in essere rispondevano a precise ragioni economiche di carattere produttivo, industriale ed organizzativo, che giustificavano l’interesse delle società a mantenere i business separati e distinti e, conseguentemente, l’adozione dello strumento giuridico utilizzato.

Inoltre, veniva evidenziata l’infondatezza del rilievo facente riferimento alla presunta unitarietà e collegamento tra gli atti posti in essere, dal momento che l’articolo 20 del Dpr 131/1986 non consente di riqualificare gli atti sulla base di elementi ad esso esterni, considerato che la valutazione di più negozi giuridici nella prospettiva del loro collegamento negoziale a fini antielusivi è estranea a questa norma.

La Ctp di Milano, richiamando integralmente la sentenza della Cassazione 2054/2017, ha annullato gli avvisi di liquidazione impugnati, riconoscendo che l’articolo 20 non può essere considerato una norma generale antielusiva. In particolare, secondo il collegio giudicante, l’ufficio deve valutare caso per caso gli atti che vengono sottoposti a registrazione tenendo presente che, nell’ambito della propria attività riqualificatoria, non è possibile arrivare ad una artificiosa costruzione della fattispecie imponibile diversa da quella voluta dalle parti assumendo a riferimento i presunti effetti economici prodotti dagli atti esaminati.

Nel caso specifico, il comportamento tenuto dalla ricorrente non era da condannare in quanto:

il contribuente non aveva conseguito alcun indebito vantaggio fiscale;

non vi era l’assenza di valide ragioni economiche;

non si era verificato un uso distorto di strumenti giuridici al fine di beneficiare di un indebito risparmio fiscale.

Esattamente al contrario, gli atti negoziali posti in essere erano stati giustificati dalla volontà di effettuare una riorganizzazione aziendale effettiva senza alcun aggiramento di norme fiscali.

Ctp Milano sentenza 3639/1/201

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