Il CommentoImposte

Web tax, il paradosso dell’(alta) imposizione italiana

Il criterio di proporzionalità è molto distante da quello individuato dalla proposta di direttiva Ue

di Marco Emma

Mentre a livello internazionale prosegue il vivace dibattito sulla tassazione dell’economia digitale, dall’inizio dell’anno è ormai in vigore la versione Italiana di imposta sui servizi digitali («Isd») e su essa occorre al momento concentrarsi.

Ciò in attesa che si raggiungano accordi internazionali in materia e che, con l’entrata in vigore delle relative disposizioni nazionali di attuazione, scatti l’abrogazione automatica della “web tax” introdotta, in via transitoria, dalla legge di Bilancio 2020 (cosiddetta “sunset clause”).

Diversi sono gli aspetti della nuova Isd che necessiterebbero di chiarimento, tra cui vale la pena soffermarsi su quello relativo alla determinazione dei ricavi tassabili derivanti dal servizio di messa a disposizione di un interfaccia digitale che faciliti le cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti.

Il criterio di proporzionalità individuato dalla norma italiana per determinare, in percentuale, la parte di tali servizi digitali di intermediazione collegata al territorio dello Stato e, quindi, la parte tassabile in Italia rispetto al totale dei relativi ricavi, sembra divergere sostanzialmente da quello di matrice comunitaria fissato dalla proposta di direttiva Com (2018) 148 final alla quale, per il resto, la nostra Isd è largamente ispirata.

Laddove la versione europea fa riferimento a una parte tassabile dei ricavi determinata in proporzione «al numero di utenti che hanno concluso operazioni corrispondenti sull’interfaccia digitale» nel periodo di imposta, la norma italiana prende, invece, a riferimento la «proporzione delle operazioni di consegna dei beni o prestazioni di servizi per le quali uno degli utenti dell’interfaccia digitale è localizzato nel territorio dello Stato».

Ai fini dell’Isd italiana, quindi, sembra contare l’incidenza percentuale data dal numero di operazioni di cui è parte un utente localizzato nel territorio dello Stato rispetto al totale di operazioni realizzate sull’interfaccia e non quella degli utenti localizzati nel territorio rispetto al totale degli utenti che hanno realizzato le operazioni sottostanti.

La scelta del nostro legislatore ricalca quella già fatta dalla Francia per la locale imposta sui servizi digitali (la cosiddetta “Gafa tax”, dall’acronimo Google, Apple, Facebook e Amazon) e porterebbe a risultati differenti, in termini di percentuale imponibile, rispetto al criterio adottato dalla proposta di direttiva europea, con annessi rischi di duplicazione di imposta.

Si pensi al seguente banale esempio teorico. Un’impresa mette a disposizione una piattaforma digitale specializzata in affitti brevi a Parigi a favore di turisti italiani, attraverso cui in un determinato periodo di imposta vengono realizzate mille operazioni, ciascuna intervenuta tra un utente localizzato in Italia e uno in Francia.

Secondo il criterio “per teste” di matrice comunitaria, il totale dei ricavi realizzati dalla messa a disposizione di tale piattaforma sarebbe ripartito in parti uguali tra Italia e Francia ai fini dell’applicazione delle rispettive imposte sui servizi digitali, essendo la metà degli utenti localizzati nel nostro Stato e l’altra metà oltralpe.

Applicando, invece, il criterio adottato dal nostro legislatore, secondo cui rileverebbe la percentuale di operazioni in cui almeno un utente risulti localizzato nel territorio dello Stato, tanto l’Italia, quanto la Francia, tasserebbero l’intero ammontare dei ricavi in questione, con evidente duplicazione dell’imposta.

Il punto meriterebbe di essere affrontato nei provvedimenti attuativi attesi.