Diritto

Concordato, privilegi pagabili in ritardo solo se compensati

La perdita economica subita dai creditori va ristorata con il diritto di voto

di Michele D’Apolito

L’impresa che propone un concordato in continuità può pagare i creditori privilegiati oltre il termine annuale dall’omologazione del piano, purché riconosca loro un diritto di voto compensativo della perdita economica derivante dal ritardo nell'incasso del proprio credito. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 11882 del 18 giugno scorso, oltre a confermare l’orientamento già espresso in passato, ha individuato nel costo ammortizzato il metodo di quantificazione del diritto di voto, stabilendo che tale compensazione debba essere contenuta nel piano e attestata dal professionista indipendente.

La questione riguarda la possibilità di una moratoria dei privilegiati superiore al termine di un anno stabilito dall’articolo 186-bis della legge fallimentare. Il tema è di grande interesse soprattutto quando la dinamica della continuità d’impresa in crisi è condizionata (come spesso accade) da tensioni finanziarie. La possibilità di posticipare ad oltre un anno dall’omologa il pagamento dei privilegiati generali, può infatti contribuire a dare impulso alla procedura concordataria: in tale direzione va anche l’articolo 86 del nuovo Codice della crisi(in vigore dal primo settembre 20121), che ammette addirittura una dilazione fino a due anni dall’omologa.

Secondo la Cassazione, la proroga della moratoria è possibile a patto che venga quantificato il detrimento subito dai creditori privilegiati a causa del ritardo. Nelle precedenti sentenze di legittimità (Cassazione 10112/2014, 20388/2014, 17461/2015, 3482/2016 e 17834/2019), la Corte, dopo aver ammesso la possibilità di dilazione del pagamento oltre l’annualità, equiparava il ritardo ad una soddisfazione non integrale del credito (la perdita economica è dovuta al maggior termine con cui i creditori conseguono le somme spettanti) da compensare con il diritto di voto.

Con questa sentenza la Suprema Corte fa un ulteriore passo avanti, individuando la modalità di determinazione del ristoro, ossia del diritto di voto nel cosiddetto costo ammortizzato, previsto dall’articolo 2426 del Codice civile, punto 8), e dal principio Oic 19, che coincide nel differenziale tra il valore del credito al momento della presentazione della domanda e quello al termine del periodo di moratoria, attualizzato ad un tasso di mercato. L’entità del diritto di voto dovrà inoltre essere contenuta nel piano ed attestata dal professionista indipendente, a pena di inammissibilità.

Nonostante l’orientamento pressocché unanime della Cassazione, in questi anni diversi tribunali di merito si sono invece pronunciati in favore dell’inderogabilità del termine annuale. Ne è un esempio la recente sentenza del Tribunale di Modena (29 aprile 2020), che fornisce una lettura sistemica in chiave negativa, anche in funzione del nuovo articolo 86 del Codice della crisi, presupponendo che la determinazione di un termine massimo di dilazione, incrementato di un anno dal nuovo Codice, ed il connesso diritto di voto proporzionato al detrimento subito non siano estensibili a termini di dilazione superiori a quanto previsto dalle norme vigenti, né oggi né in futuro. Analogamente contrari a dilazioni oltre l’anno i Tribunali di Trento (8 settembre 2014), Padova (25 novembre 2013), Rovigo (26 maggio 2015), Belluno (17 febbraio 2017) .

Alcuni tribunali si sono invece discostati dalla Cassazione sulla determinazione dell’importo di ammissione al voto dei privilegiati penalizzati, che la Suprema Corte circoscrive al «danno da ritardo» e non all’intero credito, come invece concesso da alcuni Tribunali (come Tribunale di Firenze 13 novembre 2019, o Siena 25 luglio 2014, tra gli altri). Secondo i giudici di legittimità non basarsi sull’importo corrispondente alla perdita economica dovuta al ritardo nell’incasso ma sull’intero credito attribuirebbe un peso eccessivo ai creditori privilegiati e porterebbero ad un «inquinamento delle maggioranze».

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