Professione

Il consulente paga solo se si prova che il ricorso avrebbe battuto il Fisco

di Patrizia Maciocchi

L’errore del commercialista nel proporre in ritardo un ricorso contro un atto impositivo può far scattare il risarcimento del danno solo se il cliente dimostra che, se presentata tempestivamente, la “contestazione” sarebbe stata accolta.

Con la sentenza 10586 depositata il 4 maggio scorso, la Corte di cassazione ha quindi respinto il ricorso di una società in accomandita semplice e delle due socie contro il professionista a cui avevano affidato la contabilità e gli adempimenti connessi all’attività della Sas (un’impresa di ristorazione).

Per nulla soddisfatte dall’operato del consulente, le due avevano infati chiesto i danni per una serie di “passi falsi”. Alla base delle contestazioni, un avviso di liquidazione notificato dall’amministrazione finanziaria, sia alla Sas che alle socie, presso lo studio del commercialista. L’atto – che riguardava la maggiore imposta di registro dovuta sul contratto di compravendita della società - era stato poi seguito da vari avvisi di accertamento, relativi alle imposte sui redditi dovute per tre annualità.

Secondo le socie, il commercialista non le aveva informate delle notifiche, né le aveva messe al corrente della possibilità di aderire all’accertamento e ottenere così un “taglio” delle sanzioni. Inoltre, aveva impugnato in ritardo alcuni avvisi e, comunque, solo in nome della società e non nell’interesse delle due socie. Le impugnazioni erano state poi respinte in entrambi i gradi di giudizio, anche perché non erano stati presentati i documenti a sostegno.

A parere delle socie, il professionista aveva provocato un danno pari alle maggiori imposte e alle sanzioni che le due erano state costrette a versare all’Erario. Ma l’unica condanna a pagare, da parte della Corte, è arrivata invece proprio per le “clienti”, alle quali è stata contestata anche la lite temeraria. Un verdetto severo che fa scontare alle ristoratrici l’inesattezza delle loro tesi e l’assenza di prove contrarie (innanzitutto riguardo alla mancata informazione dell’avvenuta notifica degli avvisi).

Per quanto riguarda la scelta del commercialista di non impugnare l’avviso di rettifica, i giudici di merito avevano escluso che fosse “colposa”: per il risarcimento, bisognava quindi dimostrare che un’eventuale impugnazione avrebbe avuto successo.

Nessun danno era derivato neppure dal fatto che l’unica impugnazione tempestiva era avvenuta per gli accertamenti in nome della società, mentre quella era in nome delle socie era giunta in ritardo. Per la Cassazione si tratta di una “differenza” irrilevante, perché l’ipotetico accoglimento della contestazione nell’interesse della società avrebbe avuto effetti positivi anche per le socie.

Non è addebitabile al professionista neanche il verdetto sfavorevole alla società nel giudizio di impugnazione degli avvisi di accertamento: le ricorrenti, infatti, non hanno provato di aver fornito al commericalista la documentazione che, se prodotta, avrebbe cambiato la sorte della “causa”.

Infine, i giudici di merito avevano sottolineato che gli avvisi di accertamento notificati alla Sas e alla due socie erano il risultato di gravi irregolarità nella tenuta delle scritture contabili: violazioni che – secondo la Corte di cassazione – non potevano essere attribuite al professionista ma alle sue clienti, che non emettevano scontrini e fatture.

Cassazione, sentenza 10586/2018

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©