Professione

Società tra professionisti «strette» fra Codice e Albi

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di Pierpaolo Ceroli e Agnese Menghi

Ancora vuoti normativi per le società tra professionisti, nonostante siano decorsi sei anni dalla loro introduzione. Grazie alla legge sulla concorrenza (la 124/2017), le società tra professionisti previste dall’articolo 10 della legge 183/2011 sono tornate a destare l’interesse di chi esercita professioni protette.

Tuttavia, la disciplina presenta alcune lacune dovute alla carenza di coordinamento tra Codice civile e i regolamenti degli Ordini di appartenenza.

Si consideri, infatti, che una società tra professionisti può essere costituita secondo uno dei modelli societari previsti dal Codice civile ed è quindi soggetta alla disciplina della tipologia prescelta, ma allo stesso tempo la società, che deve essere iscritta presso l’albo di appartenenza, e i professionisti devono rispettare i regolamenti e il codice deontologico del proprio Ordine.

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I requisiti

Le uniche deroghe al Codice sono previste dall’articolo 10 della legge 183/2011 e dal Dm 34/2013, secondo cui l’atto costitutivo di una società tra professionisti (Stp) deve prevedere necessariamente:

• l’indicazione di Stp nella denominazione sociale;

• le modalità di esclusione del socio che è stato cancellato dal proprio albo;

• la stipula di una polizza assicurativa;

• le modalità affinché le prestazioni siano eseguite unicamente dai soci professionisti;

• l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale dei soci;

• lo status di socio sia rivestito da soggetti abilitati allo svolgimento di attività protette (soci professionisti) o da altri soggetti per prestazioni tecniche o con finalità di investimento (soci non professionisti).

I non professionisti

L’ultimo punto potrebbe influenzare la scelta del tipo societario, anche se in questo senso il grado di responsabilità assunto dai soci riveste un ruolo decisivo. Comunque, l’articolo 10 limita la partecipazione dei non professionisti, in quanto «il numero dei professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti» deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle decisioni.

Dal tenore letterale, sembrerebbe che il requisito sia soddisfatto quando congiuntamente i professionisti siano 2/3 dei soci e detengano 2/3 del capitale, non essendo sufficiente una sola delle due condizioni.

Tuttavia, sulla base dei chiarimenti forniti – studio del Notariato 224-2014/I – quanto appena detto va coordinato con le regole civilistiche, con la necessità di prevedere specifici patti sociali. Si pensi alle società di persone, per le quali è richiesta l’unanimità per la modifica dell’atto costitutivo e quindi anche il non professionista deve acconsentire; ma nel caso in cui si voglia limitare il potere decisionale, è necessario adottare una clausola che consenta ai professionisti l’esercizio di almeno 2/3 dei voti.

Nelle società di capitali, invece, i patti sociali dovrebbero prevedere la possibilità di esercitare i 2/3 dei voti in assemblea, qualora la partecipazione sociale sia inferiore al suddetto limite.

Statutariamente, quindi, deve essere garantita la possibilità di esercitare i 2/3 dei voti, ma la decisione del non professionista può anche essere quella decisiva.

Il reddito

Per il resto, è il principio di esclusività dell’attività svolta a destare maggiori perplessità. Infatti, poiché l’oggetto sociale può essere solo l’esercizio di attività protette - essendo escluse quelle imprenditoriali o non protette, le quali possono essere strumentali ed accessorie - sembrerebbe che il reddito prodotto dalla società sia di lavoro autonomo.

La direzione centrale Normativa dell’agenzia delle Entrate - in risposta a una consulenza giuridica (protocollo 131773/2014) - oltre a supplire il vuoto normativo fiscale, ha sancito, senza ammettere deroghe, che il reddito di una Stp è di impresa, in quanto ai fini di una qualificazione «è determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria». La forma scelta, quindi, influisce anche sulla tassazione dei soci.

La conclusione dell’Agenzia contrasta però con il regime previdenziale previsto per i soci professionisti, tenuti comunque al versamento del contributo soggettivo (che di norma è dovuto sul reddito professionale e non su quello di impresa) e di quello integrativo (si veda l’articolo a fianco), a prescindere della percezione dei redditi così come non dovrebbe avvenire nell’ipotesi di una Stp di capitali (Srl/Spa).

In ultima analisi, la classificazione come reddito di impresa potrebbe aprire il fallimento alle Stp, ma il Tribunale di Forlì nel decreto 61/2017 dello scorso 25 maggio sembrerebbe pervenire, per analogia, ad una diversa conclusione.

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