Imposte

Le passività sono sempre da sottrarre

di Fabrizio Gatti e Paolo Scarioni

Di recente alcuni uffici dell’agenzia delle Entrate, in sede di controllo degli atti di cessione di azienda, hanno rettificato in aumento la base imponibile dell’imposta di registro disconoscendo in toto le passività aziendali trasferite.

A supporto del recupero effettuato si citano alcuni pronunciamenti della Cassazione, rappresentati perlopiù da ordinanze, ove è stato affermato che, per determinare il valore del complesso aziendale ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, non si devono sottrarre le passività trasferite in quanto «tale operazione è prevista dall’art. 51, comma 4, del Dpr n.131/1986 per la specifica ipotesi in cui l’Ufficio finanziario disattenda detto valore (il valore dichiarato dalle parti nell’atto, ndr) e proceda ad autonoma valutazione, nel qual caso soltanto esso dovrà sottrarre le passività al valore di mercato del bene» (ordinanze 24081/2015 e 23873/2015).

In questo caso gli uffici “cavalcano” un clamoroso equivoco in cui è incorsa la Cassazione: a parte l’illogicità di un’affermazione che vede le passività aziendali riconosciute in fase di accertamento, negandone invece la rilevanza qualora l’Ufficio non svolga alcun controllo sul valore dichiarato dalle parti, va osservato che i debiti trasferiti con l’azienda non rappresentano una modalità di pagamento del prezzo, ma concorrono algebricamente a formare il valore dell’azienda stessa. Così dispone inequivocabilmente l’articolo 23, comma 4 del Tur (Testo unico sull’imposta di registro, Dpr 131/86), a mente del quale nelle cessioni di aziende ai fini dell’applicazione delle diverse aliquote «le passività si imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione al loro rispettivo valore».

Inoltre il successivo articolo 51, comma 4 attribuisce all’Ufficio un potere di controllo, legittimandolo, in tale attività, a disconoscere le passività non «risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile», in quanto ritenute passività per le quali non sussiste l’inerenza al complesso aziendale trasferito. La funzione di tale norma, sebbene non faccia riferimento esplicito al requisito di inerenza, è infatti proprio quella di chiarire che le poste passive cedute nell’ambito di un trasferimento d’azienda, per poter essere dedotte dal valore dell’attivo, devono essere pertinenti all’azienda.

La stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte correttamente affermato che l’articolo 51, comma 4, «vuole indicare che, in tanto dovrà tenersi conto delle passività aziendali, in quanto queste ultime risultino dalle scritture contabili obbligatorie (o da altri atti con data certa); non anche che le passività effettivamente risultanti in contabilità comportino per ciò solo, in sede di controllo, la diminuzione della base imponibile dell’imposta di registro indipendentemente della loro comprovata inerenza all’azienda ceduta» (si veda, per tutte, Cassazione 10218/2016). Il che equivale a dire, al contrario, che una passività per la quale si è dimostrato il collegamento o l’inerenza con l’azienda trasferita non può non essere portata a riduzione della base imponibile dell’imposta di registro. Nello stesso senso va anche la sentenza 2048/2017, ove la Cassazione accoglie il ricorso del contribuente per non aver la Ctr di Milano valutato con la dovuta attenzione la documentazione e le argomentazioni addotte dallo stesso a dimostrazione del fatto che il debito ceduto era direttamente e funzionalmente connesso con il ramo d’azienda trasferito.

Infine, va ricordato che il riconoscimento delle passività nell’ambito della cessione d’azienda è principio condiviso anche dall’amministrazione finanziaria (si veda, per tutte, la risoluzione 145/2005 e la circolare 18/2013).

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