Abuso del diritto, nessun automatismo sulle operazioni straordinarie
L'elusione o addirittura l’evasione derivante dall’operazione straordinaria di cash out non è generalmente contestabile. L’amministrazione finanziaria, nella sua attività operativa, tende tuttavia ad assimilare a tale operazione anche atti che, pur presentando con essa alcune similitudini, generano effetti economici e patrimoniali diversi e, conseguentemente, non possono essere trattati allo stesso modo.
Il cash out è così articolato:
1) i soci, persone fisiche, di una società di capitali ricca di utili o riserve cedono le partecipazioni di quest’ultima ad altra società di capitali di cui sono soci essi stessi, affrancando il valore fiscale delle partecipazioni oggetto di cessione, grazie a una delle leggi che da oltre quindici anni rinnovano tale facoltà , mediante il pagamento di un’imposta sostituiva inferiore a quella ordinaria;
2) la società ceduta distribuisce i propri utili alla società acquirente, con una tassazione minima (24% del 5%);
3) quest’ultima utilizza i dividendi ricevuti per pagare il corrispettivo di acquisto delle partecipazioni a favore dei cedenti, senza ulteriori oneri.
In questo modo, nella sostanza, la società ceduta distribuisce utili o riserve ai suoi soci persone fisiche, anche se sul piano formale questi non percepiscono dei dividendi, bensì il prezzo di vendita delle partecipazioni, che hanno precedentemente assoggettato a un’imposta sostitutiva inferiore a quella cui sono soggetti i dividendi: la differenza tra le due imposizioni fiscali costituisce un risparmio d’imposta. Tale risparmio è considerato indebito, perché deriva da un uso dell’affrancamento che tradisce la ratio della norma che lo prevede. Infatti, almeno secondo l’agenzia delle Entrate, il predetto affrancamento rileva solo ai fini della determinazione delle plusvalenze generate dalla cessione delle partecipazioni ai sensi dell’articolo 67 del Tuir (reddito diverso), e non anche in ordine alla determinazione dei redditi di capitale, quali sono quelli derivanti dal rimborso di partecipazioni a seguito di recesso o esclusione del socio, dalla riduzione del capitale sociale e dalla liquidazione della società. Il motivo di questo differente trattamento risiede nella volontà del legislatore di agevolare il regime impositivo dei proventi discendenti dalle partecipazioni, purché queste (e la ricchezza che rappresentano) rimangano in circolazione, senza originare una riduzione del patrimonio del soggetto partecipato, negando invece l’agevolazione quando tale ricchezza viene distribuita, dando luogo a una riduzione del patrimonio della società che la possiede. Ciò posto, l’affrancamento agevolato del valore fiscale delle partecipazioni non è conforme alla ratio della norma che lo prevede, se è utilizzato non per attenuare l’imposizione di plusvalenze da cessione, cui non consegue una riduzione di patrimonio, ma per limitare la tassazione di dividendi, da cui discende, come nel cash out, una riduzione di patrimonio.
Al contrario, la vendita, da parte di persone fisiche, di partecipazioni affrancate a un’altra società, seppur posseduta dai medesimi cedenti, costituisce un’operazione coerente con la ratio della predetta norma, perché non determina alcun impoverimento del patrimonio dell’acquirente, né della società ceduta, ma comporta unicamente una modifica della composizione degli impieghi della stessa: in cambio del corrispettivo pagato, la società acquirente acquisisce la titolarità di beni aventi un valore economico equivalente. In questo caso, quindi, a differenza di quanto accade nel cash out, nel patrimonio netto dell’acquirente continuano a essere presenti le medesime riserve esistenti prima della cessione, che non sfuggono alla tassazione, perché saranno assoggettate a imposizione nel momento della loro distribuzione ai soci, in base alle regole ordinarie.