Concordato preventivo, per evitare il reato di omesso versamento l’ammissione non basta
Solo l’omologazione del concordato preventivo e non la semplice ammissione a questo evita che scatti il reato in caso di omesso versamento dell’Iva o dei contributi. La Cassazione ( sentenza 35786 ), sceglie tra due indirizzi quello più rigoroso per il contribuente. I giudici respingono così il ricorso del legale rappresentante di una Srl che chiedeva l’annullamento dell’ordinanza con la quale il Tribunale aveva confermato l’ordinanza che disponeva un sequestro preventivo, finalizzato alla confisca. Alla base della misura cautelare gli indizi per i reati di omesso versamento delle ritenute (articolo 10-bis del Dlgs 74/2000 ) e dell’Iva (articolo 10-ter).
Il ricorrente riteneva però di avere una giustificazione: era stato ammesso al concordato preventivo, prima della scadenza per il versamento dell’Iva e un suo eventuale adempimento delle obbligazioni sarebbe avvenuto in violazione del principio che impone una parità di condizioni nella soddisfazione dei creditori.
La Cassazione non è d’accordo. I giudici precisano prima di tutto che la “carta” giocata dalla difesa non riguarderebbe comunque il reato di omesso pagamento delle ritenute certificate, perché perfezionato prima dell’ammissione al concordato preventivo.
Ad escludere il reato per il mancato “pagamento” dell’Iva c’è invece la giurisprudenza maggioritaria. Secondo i giudici, infatti, l’ammissione al concordato preventivo, anche se precedente alla scadenza del termine fissato per il pagamento dell’imposta, non “salva” dal reato per un debito scaduto. Inutile per il ricorrente invocare l’applicazione del principio a lui più favorevole (sentenza 15853/2015) secondo il quale il reato, previsto dall’articolo 10-ter, non è configurabile, anche a debito scaduto, se il debitore è stato ammesso al concordato preventivo prima della dead line per il pagamento: un effetto dell’inclusione nel piano del debito di imposta degli interessi e delle sanzioni amministrative.
La Cassazione dà conto del ragionamento seguito nelle contrastanti pronunce. Secondo l’indirizzo condiviso, gli Stati sono tenuti, per essere in linea con il diritto dell’Unione, a garantire la riscossione dell’Iva sul loro territorio. Anche la disciplina sul concordato preventivo impone, con una norma inderogabile di ordine pubblico (articolo 182-ter della legge fallimentare) il pagamento dell’imposta, “aprendo” solo alla dilazione. La scelta, di natura privatistica, del debitore di imboccare la via del concordato non fa venire meno gli obblighi giuridici, di natura pubblicistica, come il versamento dell’Iva. In caso contrario si consumerebbe un reato istantaneo che coincide con l’inutile scadenza del termine per il versamento. Per l’indirizzo minoritario il concordato, anche se frutto di iniziativa privata è un istituto prevalentemente pubblicistico che si muove su un percorso disegnato dalla giurisdizione, non si può ignorare dunque ai fini penali, che la dilazione del debito Iva può rientrare nel piano concordatario. Una liceità che non deve restare confinata nell’ambito di quell’istituto a meno di cadere nella contraddizione di dare al giudice fallimentare il potere di ammettere e di omologare una condotta di rilievo penale. L’intreccio tra norme penali e concorsuali non può avere come conseguenza lo svuotamento di contenuto delle seconde, relativizzandone gli effetti.
In nome del coordinamento è necessario - per i giudici che scelgono l’orientamento meno “rigido” - escludere la sussistenza del reato. Ma per la Cassazione il contrasto è più apparente che effettivo. Secondo i giudici della terza sezione, anche l’indirizzo dal quale prendono le distanze, presupporrebbe in realtà l’omologazione del concordato. In conclusione è necessario che l’accordo di ristrutturazione o della transazione fiscale prevedano espressamente la dilazione del debito in epoca successiva alla scadenza del termine e che l’omologa ci sia prima di quella data. Solo così l’omologazione dell’accordo inciderebbe sulla sussistenza del reato.
La sentenza n.35786/17 della Cassazione