Transfer price, bocciato il cambio di indicatore
L’indice di redditività impiegato in corso di verifica dall’amministrazione finanziaria al fine di dimostrare la fondatezza delle rettifiche di transfer pricing non può essere dalla stessa modificato in sede di accertamento, senza un contraddittorio preventivo, pena l’illegittimità dell’atto impositivo per violazione del principio di cooperazione e lealtà tra amministrazione e contribuente, previsto dallo Statuto dei contribuenti. È quanto affermato dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza 2629/24/2018 del 7 giugno scorso (presidente Ceccherini, relatore Sacchi), che segna un ulteriore punto a favore del contribuente nell’ambito delle controversie sui prezzi di trasferimento.
Ma andiamo con ordine. La vicenda nasce da un avviso di accertamento con il quale la direzione provinciale di Monza e Brianza contesta a una società di avere posto in essere operazioni con società controllate estere applicando prezzi inferiori al “valore normale”, in asserita violazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir che presuppone invece un allineamento dei prezzi a tale parametro (si veda anche Il Sole 24 Ore del 27 agosto scorso).
Il cambio di indicatore
L’ufficio ridetermina il valore normale delle operazioni esaminate sulla base del metodo di comparazione dei margini di utile netto (Transactional Net Margin Method, in sigla Tnmn), calcolato sulla base di un indice di redditività collegato allo stato patrimoniale (Return on Assets, Roa) anziché su quello inizialmente utilizzato in sede di verifica, collegato al conto economico (Return on Sales, Ros).
La società ricorre in giudizio lamentando, tra l’altro, l’illegittimità della rettifica per motivi di procedimento e di merito. Nonostante i giudici di primo grado diano piena ragione al contribuente, l’Agenzia ricorre in appello, ma la Commissione tributaria regionale della Lombardia conferma in toto la sentenza di primo grado.
La motivazione
La Commissione conferma la decisione dei giudici di primo grado e dichiara l’atto di accertamento nullo innanzitutto in quanto emesso in violazione dell’obbligo di lealtà che deve sussistere tra Fisco e contribuente. In particolare, dopo aver riconosciuto, a fronte delle osservazioni ricevute dalla società in sede di primo contraddittorio, che l’indice di redditività utilizzato in corso di verifica (il Ros) non era idoneo, considerato il campione di ricavi utilizzati, l’agenzia delle Entrate – anziché richiedere alla società ulteriore documentazione utile a migliorare il campione di riferimento – ha proceduto all’accertamento sulla base di un indice completamente diverso, basato sullo stato patrimoniale anziché sul conto economico (il Roa).
In questo modo, per i giudici di secondo grado, è stato vanificato completamente il senso del contraddittorio anticipato, in violazione dell’articolo 12, comma, 10, dello Statuto del contribuente.
Peraltro, nel merito, secondo giudici il procedimento è illegittimo anche limitandosi a considerare la bontà dell’indicatore Roa utilizzato dal Fisco, perché basato su un campione non rappresentativo, in quanto costituito da imprese di dimensioni significativamente inferiori rispetto alla società, e dunque insufficiente a dimostrare il transfer pricing dalla stessa applicato.
La stessa società, tra l’altro, aveva rilevato come le differenze di prezzo riscontrate dal Fisco potessero dipendere dal diverso livello di commercializzazione delle transazioni nei diversi Paesi, posto che le consociate estere vendevano in via non esclusiva sia a grossisti sia a operatori della grande distribuzione.
Su queste basi, la Commissione respinge l’appello, confermando in pieno la sentenza di primo grado, e condanna peraltro l'ufficio al pagamento delle spese di giudizio (liquidate in 10mila euro per compenso, oltre agli accessori di legge).