La giustizia fiscale deve essere raccordata con il sistema penale
Con il potenziamento degli istituti deflattivi vanno adeguate le conseguenze anche rispetto ai reati
Il disegno di legge governativo in materia di riforma della giustizia tributaria è approdato al Senato, dove inizierà l’iter parlamentare per l’approvazione. Da più parti sono state segnalate incongruenze e lacune del testo licenziato da Palazzo Chigi che ha deluso, specie sul versante strettamente procedurale, le aspettative di quanti si attendevano un reale restyling e non una serie di micro-interventi che lasciano, sostanzialmente, invariato l’impianto originario del Dlgs 546 del 1992.
Uno dei grandi assenti della riforma, almeno fino a questo momento - e l’auspicio è che in sede di approvazione tale lacuna possa essere colmata - è una revisione sistematica delle interconnessioni con la disciplina dei reati fiscali. Una riforma del processo tributario con pretese di esaustività, non può prescindere da una ridefinizione, organica e di ampio respiro, dei rapporti tra la sfera amministra tiva e quella penale e, in definitiva, del perimetro di applicazione delle sanzioni penali e di quelle amministrative; ciò, specie con riguardo ai casi di definizione della pretesa tributaria mediante istituti deflattivi del contenzioso (ad esempio, in adesione o in conciliazione giudiziale) al di sotto delle soglie penalmente rilevanti, nei casi di dichiarazioni infedeli o omesse.
Il tema è noto. La giurisprudenza di legittimità ha affermato, a più riprese, che il giudice penale, in ossequio al principio del doppio binario di cui all’articolo 20 del Dlgs 74 del 2000, che regola i rapporti tra processo penale e tributario, non è automaticamente vincolato al quantum risultante dall’adesione (o dalla conciliazione giudiziale), nonostante il fatto che tale quantificazione rappresenti il fine tuning di un’obbligazione, quale quella tributaria, per sua stessa natura indisponibile per gli uffici. Pur a voler tacere delle distorsioni del principio del “doppio binario”, trasposto - troppo spesso - surrettiziamente, dall’ambito processuale (dove è sorto) a quello sostanziale, le conseguenze pratiche e di sistema sono sotto gli occhi di tutti. Il processo penale inizia o prosegue (con possibili esiti discordanti) anche quando in sede amministrativa la pretesa impositiva sia stata ricondotta sotto la soglia di punibilità, con la conseguenza, poco coerente, di poter vedere riconosciuta un’evasione penale che non esiste (più) in sede amministrativa.
E allora, la questione è di quelle importanti e va risolta in via legislativa, magari già in sede di approvazione della riforma della giustizia tributaria. Ne va della credibilità e dell’appeal degli istituti deflattivi del contenzioso (la cui definizione è oggi, a certe condizioni, una mera attenuante in sede penale), nonché della stessa omogeneità della quantificazione dell’«imposta evasa», dovendosi evitare che ciascuna giurisdizione - tributaria e penale – possa giungere a differenti (e contraddittorie) determinazioni.
L’attuale assetto normativo dei rapporti con il processo penale non pare cogliere pienamente nel segno, come sembra pure emergere, almeno implicitamente, dalle stesse parole recentemente pronunciate dal direttore dell’agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, quando ha auspicato un maggior impulso al pagamento delle imposte evase, anche a discapito della sanzione penale.
Ecco, allora, ferma restando l’immediata segnalazione al giudice penale di violazioni rilevanti ex articolo 331 del Codice di procedura penale, perché non creare uno «stato di sospensione» dell’istruttoria penale fino allo spirare del termine per la procedura di adesione, nella quale le parti possono individuare, grazie al contraddittorio, la corretta pretesa, potenzialmente “sotto soglia”? Medesime esigenze di coordinamento si pongono anche in relazione alla conciliazione giudiziale, per la quale, ovviamente, non è possibile ipotizzare analogo stato di sospensione. L’obiettivo non è limitare l’iniziativa penale, bensì renderla ancor più efficiente, per effetto del giusto rapporto con gli esiti del contraddittorio amministrativo volto all’esatta quantificazione della pretesa fiscale.
Qualora, poi, alla sottoscrizione dell’accordo di adesione o di conciliazione giudiziale, la quantificazione dell’imposta rimanga “sopra-soglia” potrebbe immaginarsi di integrare il comma 1 dell’articolo 13 del Dlgs 74 del 2000, il quale prevede la non punibilità in caso di pagamento dell’obbligazione tributaria (anche rideterminata in adesione o conciliazione) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Si potrebbe, in particolare, estendere tale disposizione anche ai reati di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del medesimo Dlgs 74 del 2000. Tutto quanto precede non può naturalmente riguardare le fattispecie fraudolente, per le quali l’ordinamento deve garantire una severità coerente con la maggior pericolosità sociale dei relativi comportamenti.
D’altro canto, fuori dalle ipotesi di frode, le attuali sanzioni amministrative sono già sufficientemente elevate da sconsigliare, nella maggioranza dei casi e, in particolare, nelle dichiarazioni infedeli, comportamenti callidi dei contribuenti volti ad evitare il pagamento delle imposte, attendendo l’accordo con il Fisco.
È una questione di equità e coerenza. Un ordinamento comprensibilmente orientato al potenziamento degli istituti deflattivi del contenzioso sul versante tributario, deve adeguare le conseguenze di tali istituti anche sul piano penale, pena il rischio di scoraggiare la loro adozione e non realizzare appieno gli obiettivi di sostegno della compliance fiscale.
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di Eugenio della Valle