I temi di NT+Modulo 24

Società a ristretta base, il terreno di scontro coinvolge anche il numero di partecipanti

La presunzione, per come è concepita dalle Entrate e dalla Cassazione, non può essere semplice ma di tipo giurisprudenziale relativo

di Marco Cramarossa

L’assenza di una definizione giuridica di società a ristretta base partecipativa, sia dal punto di vista civilistico che tributario, ha talvolta portato gli interpreti a invadere il terreno dell’articolo 116 del Tuir che, con riferimento ai requisiti per l’opzione per la trasparenza fiscale delle società a ristretta base proprietaria, ne ammette l’esercizio in caso di compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a dieci.

A parte questo richiamo normativo, non si riscontrano però nel tempo molti altri elementi meramente quantitativi enunciati dall’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, o dalla giurisprudenza, nei giudizi sia di merito che di legittimità. Rispetto a quanto appena detto, l’ordinanza di Cassazione n. 26803 del 25 novembre 2020 rappresenta una delle poche eccezioni. In particolare, un passaggio di quest’ultima pronuncia è stato di recente pedissequamente richiamato dall’ordinanza n. 10680 del 4 aprile 2022, nella quale i giudici hanno affermato, tra le altre cose, che «il fondamento logico della costruzione giurisprudenziale si rinviene nella “complicità” che normalmente avvince un gruppo societario composto da poche persone, in genere da due fino ad un massimo di sei (ma non v’è alcun dato numerico preciso, trattandosi di una presunzione semplice), sicché vi è la presunzione che gli utili extracontabili siano stati distribuiti ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, salva la prova contraria a carico del contribuente (Cassazione, sezione V, 26 maggio 2008, n. 13485)».

La pronuncia della Cassazione

La statuizione fatta riaffiorare dalla Corte è talmente precisa e, al contempo, approssimativa da lasciare il lettore nudo nel paludoso terreno del pressapochismo tributario. Non è in verità l’unica affermazione contenuta nell’ordinanza che sorprende, ma certamente contiene, più di altre, alcuni elementi che meritano di essere approfonditi.

Innanzi tutto, si segnala l’elemento quantitativo, che vedrebbe la “complicità” valorizzata - “in genere” - dalla presenza di un numero di soci da due a un massimo di sei. Una forchetta che però i giudici si affrettano a definire non precisa, perché l’affectio familiaris (ormai latamente inteso) incarna pur sempre una presunzione semplice.

Ecco, dunque, tracciato l’ulteriore elemento (qualitativo) di novità. Infatti, sembrerebbe che i giudici riconoscano che la ristretta base societaria non possa da sola rappresentare il fatto noto da cui far discendere la distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati in capo alla società. Quindi, per trasformarsi in fatto noto ed essere apprezzata dal giudice, la presunzione deve necessariamente avere i caratteri della precisione, gravità e concordanza. Un onere, quest’ultimo, che spetta all’Amministrazione finanziaria, atteso che la natura di presunzione semplice è incompatibile con il ribaltamento del gravame sul contribuente. Tuttavia, anche in questo caso, l’importante e condivisibile assunto riguardante l’effettiva natura della presunzione deve scontrarsi con la successiva affermazione, che ne svilisce e annulla la portata. La Corte, in realtà, torna a ribadire l’artificiale assunto da essa costruito, secondo cui la famigerata “complicità” farebbe, di per sé, presumere la distribuzione ai soci, salva la prova contraria a carico degli stessi.

Un aspetto consolidato per i giudici, che, infatti, subito dopo il passaggio in precedenza riportato, si affrettano a rimarcare che nella presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili il fatto noto, che sorregge la distribuzione degli utili extracontabili, non è costituito dalla sussistenza di questi ultimi, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale: salva la dimostrazione, da parte dei soci, della propria estraneità rispetto alla gestione e alla conduzione societaria.

La verità è che la presunzione in parola, per come è maneggiata dall’agenzia delle Entrate e dalla Cassazione, non si atteggia mai purtroppo a presunzione semplice (come invece dovrebbe), quanto piuttosto mostra il volto oscuro di una presunzione giurisprudenziale relativa. Non è possibile definirla legale, perché non è stata una disposizione di legge a tracciarne il perimetro, pur producendone di fatto gli stessi effetti e le medesime conseguenze sul piano probatorio.

Stupisce però, sia consentito dirlo, il grado di approssimazione con il quale i giudici di legittimità amministrano le presunzioni, prima, e argomentano le pronunce, poi. L’ordinanza in commento, peraltro, non è affatto un caso isolato rispetto al tema della incoerente declinazione della grammatica tributaria dell’onere probatorio in materia di presunzioni. Un corto circuito dello stesso segno è altresì riscontrabile in un altro recente arresto giurisprudenziale (Cassazione, sentenza n. 8652 del 16 marzo 2022), ove è stato affermato che «una volta accertati utili extrabilancio, la ristretta base azionaria, costituisce presunzione semplice idonea, anche di per sé sola, a far ritenere l’attribuzione pro quota ai soci».

L’ordinanza in commento non manca poi di avventurarsi nella (ormai consueta) equiparazione dei costi fittizi ai costi che, pur effettivamente sostenuti, sono poi ritenuti indeducibili - in tutto o in parte - in sede di accertamento. Un percorso ardito, sia dal punto di vista logico che giuridico, in base al quale si continua ad affermare che «non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi», confermando così che l’indeducibilità di costi fatturati comporta «un inevitabile incremento dell’imponibile e genera un maggior utile, non contabilizzato, al quale non può che applicarsi la presunzione di distribuzione degli utili, in virtù della ristretta compagine sociale».

Samuel Beckett diceva che «le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette». Nel caso della presunzione giurisprudenziale in questione si infoltisce la schiera di coloro che piangono ed è però sempre più difficile ci sia qualcuno che smetta di farlo.

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