Contabilità

Anche le società «in house» sono a rischio di insolvenza

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di Bernardo Bruno

La recente pronuncia n. 3196, emessa dalla prima sezione civile della Suprema Corte e pubblicata lo scorso 7 febbraio 2017, offre definitiva soluzione al dibattuto tema delle società di capitali a partecipazione pubblica , principalmente in relazione al trattamento normativo ad esse applicabile.

La problematica giuridica in esame profila questioni di interesse attuale e diffuso, anche in ragione della diretta incidenza che il debito di alcune partecipate ha svolto nel dissesto finanziario di importanti gruppi bancari nazionali, pregiudicati da un accumulo di Npl riconducibili, in quota parte, all’insolvenza di queste.

Disattendendo un’interpretazione, a rigore di cui le società in house provinding sarebbero escluse dall’ambito applicativo della normativa fallimentare, in quanto organismi di diritto pubblico sostanziale, la Corte di Cassazione ha evidenziato che «la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico» comporti la conseguente assunzione di tutti i rischi correlati, primo tra i quali l’insolvenza, con ciò aderendo al recente arresto giurisprudenziale della sentenza n. 22209 del 2013.

I giudici, in particolare, hanno valorizzato la necessaria salvaguardia del principio di uguaglianza e di affidamento di tutti i soggetti terzi coinvolti con imprese a compagine pubblica. Queste, qualora costituite nella forma di società di capitali, scontano gli effetti di tale scelta di indirizzo, sottoponendosi alle regole di concorrenza imposte agli operatori del mercato «con identiche forme e medesime modalità». Il provvedimento ha recepito, nella sostanza, principi introdotti da interventi normativi di recente promulgazione. L’articolo 4, comma 13, del Dl n. 95 del 2012 (cosiddetto spending review) aveva già posto una generale norma di rinvio in materia, estendendo alle società a totale o parziale partecipazione pubblica la disciplina dettata dal codice civile per le società di capitali. Il successivo Dlgs n. 175 del 2016 ha, quindi, cristallizzato il principio, muovendo dall’innovativo indirizzo delineato dalla giurisprudenza fallimentare e statuendo che «le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi».

Alla luce della pronuncia in esame, può ritenersi definitivamente superata ogni residuale eccezione fondata sulla supposta divergenza causale tra le partecipate e le società a scopo di lucro, venendo in rilievo non tanto la specifica tipologia di attività, quanto la natura giuridica del soggetto di impresa, il cui rischio tipico si rivela conforme alla struttura societaria adottata. L’Ente che costituisce o partecipa ad una società di capitali, scegliendo di perseguire un interesse pubblico attraverso uno strumento privatistico, soggiacerà, per l’effetto, all’applicazione della normativa generale sancita dal codice civile e dalla legge fallimentare. Una soluzione, questa, idonea ad assecondare esigenze di giustizia sostanziale ed arginare, nel contempo, i possibili effetti di un danno erariale generato dall’indiscriminato accesso di creditori sociali al patrimonio pubblico.

Le ipotesi di mala gestio delle società strumentali, tutt’altro che infrequenti nella prassi, trovano in tal modo una precisa limitazione nell’autonoma responsabilità della partecipata, la quale, ancorché vincolata a direttive tipiche del settore pubblico (quanto al rispetto degli interessi coinvolti e alla destinazione della finanza d’intervento), sarà soggetta alle normali regole privatistiche nell’organizzazione e nella disciplina.

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