Contabilità

Combustione illecita di rifiuti con il nodo della «231»

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di Pierpaolo Ceroli e Stefano Cocchini

L'introduzione dell'articolo 256-bis nel Codice ambientale (Dlgs 152/2006) e la previsione della nuova figura di reato di combustione illecita di rifiuti si pone un problema di coordinamento con il Dlgs 231/2001.
Infatti, l'entrata in vigore della legge 6/2014 (che ha convertito il decreto «Terra dei fuochi», Dl 136/2013) ha sancito l'istituzione della nuova fattispecie di reato con la quale è punito chiunque appicchi il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata. La pena prevista è la reclusione da due a cinque anni, salvo il caso in cui i rifiuti siano pericolosi e allora la pena sale da tre a sei anni di reclusione.
Tuttavia, l'articolo 256-bis, comma 3, del Dlgs 152/2006 prevede un'ipotesi aggravata (pena aumentata di un terzo) nel caso in cui la combustione dei rifiuti avvenga nell'ambito di un'attività d'impresa o comunque di un'attività organizzata.
Chi abbia inteso colpire il legislatore con questa specifica previsione non è di facile individuazione. In ogni caso dovrebbero esserne ricompresi le imprese che si occupano direttamente dello smaltimento dei rifiuti, ovvero coloro che gestiscono lo smaltimento con un'attività comunque organizzata. Si pensi, dunque, a quei soggetti che svolgono un'attività professionale nell'ambito della gestione del ciclo dei rifiuti, come ad esempio smaltitori, trasportatori, gestori di discariche o di impianti di smaltimento o termovalorizzatori.
La norma prevede, altresì, che questi soggetti, titolari dell'impresa o responsabili dell'attività comunque organizzata, siano ritenuti responsabili sull'operato degli autori materiali del delitto, sotto il profilo autonomo della omessa vigilanza, sempre che gli esecutori materiali dell'appiccamento del fuoco siano riconducibili all'impresa o all'attività stessa.
Si è creata, dunque, in capo a questi soggetti una posizione di garanzia in forza della quale saranno chiamati a rispondere per omessa vigilanza sull'operato dei loro dipendenti o comunque sottoposti.
Detto che già questo aspetto risulta sotto certi profili criticabile, ciò che più lascia perplessi è la previsione che nei loro confronti debbano essere applicate anche specifiche misure interdittive, fra le quali, appunto, l'interdizione dall'esercizio dell'attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze e concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione e l'esclusione di agevolazioni o sussidi. Tuttavia, tali misure, come espressamente richiamato dalla norma in esame, sono previste nell'ambito del Dlgs 231/2001 e quindi, per loro natura, rivolte a persone giuridiche e non a persone fisiche. Un'anomalia che trova ancora maggior risalto in considerazione del fatto che il nuovo reato non è stato inserito fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti.
Una dimenticanza o una ponderata scelta legislativa? In quest'ultima ipotesi non si comprenderebbe la volontà del legislatore di colpire direttamente la persona dell'imprenditore, del datore di lavoro o di un suo delegato, per fatti che potrebbero essere stati commessi senza l'interesse o il vantaggio dell'ente, come invece previsto nell'ambito della «231». Se, invece, si tratta di una dimenticanza, va considerato che un inserimento dell'articolo 256-bis nell'elenco dell'articolo 25-undecies del Dlgs 231/2001 potrebbe almeno concedere il paracadute del modello organizzativo idoneo ed esimente.

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