Diritto alla detrazione Iva senza limiti ingiusti
Sentiamo spesso ripetere che il fisco è fonte di mille complicazioni. Non è una prerogativa italiana: scrivere bene leggi e regolamenti in materie tecniche non è per nulla facile. Laddove non arriva la penna, il buon senso dovrebbe sempre aiutare. Speriamo che così avvenga anche per quanto di buono è stato fatto in tema di indebita detrazione Iva nell'ultima di legge di Bilancio.
Con ammirevole coraggio e visione sistematica, il Parlamento ha inteso porre fine ai problemi causati dalle contestazioni dell'amministrazione finanziaria volte a negare, nelle cessioni e prestazioni tra soggetti passivi, la detrazione dell'Iva “a monte” su operazioni non soggette a imposta o che l'avrebbero dovuta scontare ma con aliquota inferiore.
Il principio di neutralità dell'Iva, vera architrave del sistema, fa sì che, fatti salvi i casi di limiti alla detrazione, la misura dell'Iva nei rapporti tra soggetti passivi è del tutto irrilevante. Che sia zero, 10, 22 o 44%, per le imprese e per l'Erario nulla cambia. L'impresa cliente detrae ciò che deve al fornitore e che questi gira allo Stato. I due operatori economici finiscono in pari e l'Erario non incassa l'Iva fino a quando non vi sia una cessione al consumo. Questo, lo si ripete, è indipendente dall'aliquota applicata.
Ciò nonostante, se in fase di controllo su una cessione intermedia l'amministrazione finanziaria ritiene che sia stata applicata un'Iva indebita, nega al cliente il diritto di detrarla. Il malcapitato deve quindi nuovamente versare l'Iva che ha già pagato al fornitore con aggravio di interessi e sanzioni proporzionali.
La neutralità, a questo punto, salta. Per ristabilire l'equilibrio, la procedura era assai lunga. Il malcapitato doveva far consolidare – magari accettandola - la pretesa erariale, poi agire in giudizio per ottenere un titolo esecutivo contro il fornitore per la restituzione dell'Iva indebitamente addebitata, così che quest'ultimo potesse a sua volta ottenerne il rimborso dall'Erario. Tutto questo putiferio per ritornare alla situazione di partenza: l'Erario doveva comunque restituire l'imposta che l'amministrazione finanziaria gli aveva fatto recuperare con il controllo. Ovviamente non c'era traccia di evasione e dunque sanzioni e interessi erano inspiegabili.
Accortosi della profonda inutilità e ingiustizia di questo esercizio che, oltre alle imprese, tiene impegnata l'amministrazione e ben due organi giurisdizionali, il Parlamento ha votato una norma secondo cui in caso di applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o dal prestatore, resta fermo il diritto del cessionario o committente alla detrazione Iva e in luogo di una sanzione proporzionale si applica un sanzione fissa, con il minimo di 250 euro.
La salvaguardia del diritto alla detrazione e la sanzione fissa si spiegano facilmente ricordando che la norma interviene nei casi in cui, pur essendo stato commesso un errore, l'Erario non ne ha subito alcun pregiudizio.
Norme di questo tipo sono capaci di risollevare gli animi degli operatori del diritto tributario, fiaccati da complicazioni talvolta incomprensibili. Il peggio che possa accadere è che l'attuazione di questa sacrosanta regola di chiarezza ed equilibrio sia irragionevolmente limitata in via interpretativa.
Non sarebbe accettabile limitarne l'applicazione ai soli casi in cui sia stata applicata un'aliquota maggiore di quella dovuta, tenendo fuori quelli in cui l'operazione non era soggetta ad Iva perché fuori campo, non imponibile o esente. Si sfrutterebbe, infatti, una lettura asistematica della lettera della legge per giungere ad un esito del tutto incoerente con le evidenti ragioni che stanno dietro alla scelta legislativa. Lo si ripete: che l'imposta sia stata applicata anche se non dovuta o che sia stata applicata con una aliquota maggiore di quella prevista dalla legge gli effetti, in termini di neutralità e di inoffensività del comportamento, sono esattamente gli stessi. Un regime differenziato sarebbe irragionevolmente discriminatorio e contrario al buon senso.
Allo stesso modo, non sarebbe accettabile che venisse posta in dubbio l'applicazione del nuovo regime a qualsiasi rapporto pendente, con il solo limite del giudicato. Se la legge dice che un diritto “resta fermo” vuole evidentemente dire che quel diritto esisteva prima della legge che lo riafferma e rafforza.
Siamo confidenti che ancora una volta il buon senso e la ragionevolezza guideranno l'interpretazione di questa importante norma per gli organi preposti.