Imposte

Dl crescita, bonus più ridotti: l’Ires sugli utili reinvestiti si ferma al 20,5% nel 2022

di Carmine Fotina e Marco Mobili

Frenata in corsa sulla riduzione dell’Ires per le imprese che reinvestono gli utili in azienda: l’aliquota a regime dal 2022 si fermerà al 20,5 % e non più al 20% come annunciato dal Governo all’indomani dell’approvazione «salvo intese» del decreto legge sulla crescita avvenuta giovedì 4 aprile. Non solo. Per superare i nodi delle coperture sollevati dai tecnici, è stata rivista al ribasso anche la progressione triennale dell’aumento della deducibilità dall’Ires e dall’Irpef dell’Imu sui capannoni delle imprese. Senza dimenticare, poi, che già nel testo in entrata al consiglio dei ministri della scorsa settimana,la “stabilizzazione” del credito d’imposta su ricerca e sviluppo era stata ridotto dal 25% al 15 per cento.

Sono queste alcune delle ultime limature apportate al Dl crescita per garantire le coperture agli incentivi per le imprese. A farne le spese è soprattutto la cosiddetta “nuova mini-Ires”. Con la nuova progressione si conferma per il 2019 l’abbattimento al 22,5% dell’Ires, con un taglio dell’1,5% dell’aliquota oggi fissata al 24%. Anche per il 2020 ci sarà l’annunciato taglio di un altro punto percentuale, con il prelievo sulle imprese che si attesterebbe al 21,5%, mentre per il 2021 e il 2022 la riduzione dell’imposta sarà dello 0,5% annuo, facendo attestare l’aliquota, come detto, al 20,5% e non più al 20 per cento.

Archiviata già dalla scorsa settimana l’ipotesi di una deducibilità piena dell’Imu sugli immobili strumentali delle imprese, l’aumento dello sconto fiscale si fermerà al 70% a partire dal 2021. Per il 2019 la percentuale di deduzione sia ai fini Ires che Irpef passerà dal 40% al 50%, mentre per il prossimo anno salirà al 60 per cento.

Il decreto è comunque un cantiere ancora aperto. Alle coperture in via di soluzione, si aggiunge lo scontro in atto, al punto da mettere in bilico l’intesa nel governo, su alcune norme Mise a partire dall’addio allo scudo penale per i manager dell’ex Ilva, fino alla norma sull’Alitalia che dovrebbe teoricamente consentire l’ingresso dello Stato attraverso la conversione del prestito ponte. Misura, quest’ultima, su cui ci sarebbero valutazioni in merito alle regole Ue sugli aiuti di Stato.

Su quando e come chiudere il cantiere della crescita, però, è ancora un rebus. C’è una parte dell’Esecutivo che spinge per chiudere il testo e arrivare all’approdo sulla Gazzetta Ufficiale solo dopo i “i ponti di primavera”, ossia a cavallo tra la fine di aprile e i primi di maggio. In questo modo si eviterebbe di presentare subito il decreto perdendo almeno 20 giorni di lavori parlamentari per la conversione in legge con le due Camere pronte a svuotarsi dal prossimo “venerdì santo” fino al 6 maggio. Inoltre, l’esame del Dl entrerebbe nel vivo, una volta ultimate le audizioni, solo dopo il voto elettorale per le europee e le amministrative del 26 maggio. Un’ipotesi di lavoro che vede però contraria un’altra parte dell’Esecutivo forte anche delle perplessità manifestate dal Quirinale sull’approvazione di norme in Cdm che poi trovano conferme solo dopo alcune settimane. Non solo. Un rinvio a fine mese della pubblicazione del decreto andrebbe in rotta di collisione con le associazioni dei risparmiatori coinvolti nei crack bancari che hanno già annunciato una manifestazione a Roma per il 19 aprile. La condizione per annullare la protesta è quella di vedere firmati da Tria entro quella data i decreti attuativi che recepiscono l’accordo raggiunto la scorsa settimana. E le rassicurazioni giunte ieri dal premier, Giuseppe Conte, che le norme «consentiranno la liquidazione diretta o comunque rapida degli indennizzi a tutti i risparmiatori truffati» e che «queste norme saranno inserite nel Dl crescita», potrebbero non bastare ai circa 200mila clienti delle 11 banche fallite o poste in risoluzione dallo Stato.

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