E sulle monete virtuali arriva anche la stretta Ue
Il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato la risoluzione legislativa del 19 aprile 2018 che modifica la direttiva (UE) 2015/849, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, indicata come V direttiva antiriciclaggio. Il processo di modifica era iniziato dopo la proposta della Commissione Ue COM(450)2016 che intendeva adeguare la IV direttiva alle nuove sfide.
Le modifiche comprendono misure relative all’utilizzo delle valute virtuali, introducendo anche due nuove categorie di entità soggette agli obblighi antiriciclaggio. In tale maniera le autorità competenti dovrebbero essere in grado di monitorare, attraverso i nuovi soggetti obbligati, l’uso delle valute virtuali ai fini dell’antiriciclaggio e del contrasto del finanziamento del terrorismo, con l’intenzione di sviluppare un approccio equilibrato e proporzionale.
La nuova direttiva prevede la definizione di «valute virtuali» quale: «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente». È indubbio che la definizione comunitaria allontana, se non addirittura impedisce, il paragone alle valute aventi corso legale, in ossequio anche all’opinione del 12 ottobre 2016 da parte della Bce.
La V direttiva antiriciclaggio estende gli obblighi a due nuovi soggetti individuati nei prestatori di servizi di portafoglio digitale e negli exchanger, questi ultimi definiti quali «prestatori di servizi la cui attività consiste nella fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute aventi corso forzoso». La direttiva definisce chiaramente il «prestatore di servizi di portafoglio digitale» quale soggetto che fornisce servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali. Tale nozione avvalora ulteriormente l’assoluta incompatibilità tra le valute virtuali e la nozione di valute aventi corso legale, con la conseguenza che il portafoglio digitale non possa essere considerato né un conto corrente né un deposito, conformemente anche a quanto stabilito dalla sentenza C-264/14 del 22 ottobre 2015 della Corte Ue.
Emerge in questo modo, posta l’assoluta incompatibilità tra criptovaluta e valuta estera affermata da parte del diritto comunitario, l’incoerenza della risposta all’interpello dell’agenzia delle Entrate n. 956-39/2018 (confermativo della risoluzione n. 72/E del 2 settembre 2016), che invece ha assimilato le valute virtuali alle valute estere e il wallet a un conto corrente. Si rileva che le nozioni previste dal Dlgs 231/2007 devono quindi essere oggi interpretate sulla base dei principi e delle definizioni della V direttiva antiriciclaggio appena approvata, dato che alcune disposizioni della stessa erano già state recepite in Italia dalle disposizioni contenute dal decreto legislativo n. 90 del 25 maggio 2017.