Fallimenti, la chiusura imbocca la corsia preferenziale
Il 6 giugno il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ha diffuso un documento che esamina le modalità di chiusura del
La novità normativa è infatti maturata in un quadro in cui pare aggirarsi tra le procedure fallimentari lo spettro della
In questo senso, ad esempio, è stata prevista una drastica restrizione dei tempi di liquidazione dell’attivo. L’ultimo comma dell’articolo 43 della Legge fallimentare, riformato dal Dl 83/2015, contempla una sorta di corsia preferenziale per vertenze giudiziali nelle quali è parte un fallimento. Nel medesimo alveo s’inseriscono le recenti modifiche apportate agli articoli 118 e 120 della Legge fallimentare, introdotte con l’intento di favorire la conclusione anticipata dei fallimenti, anche in pendenza di giudizi, nella consapevolezza che il protrarsi del fallimento è spesso il riflesso diretto delle tempistiche dilatate delle cause in cui la procedura risulta coinvolta.
La novella dell’articolo 118 ha suscitato una serie di reazioni, che si innestano in una già corposa discussione sviluppatasi anche prima della riforma e concentrata in maniera prevalente sulla gestione dei procedimenti di natura endofallimentare (tra le molte, le pronunce della Suprema Corte n. 9506/1995, 22105/2007, 18550/2014, volte a stabilire che la pendenza di domande tardive o del giudizio di opposizione a stato passivo non sono di ostacolo alla chiusura del fallimento).
Nel riconoscere che quella in esame rappresenta una delle modifiche più controverse, il Cndec sottoliena come l’articolo 118, nella sua nuova formulazione, contenga a tutti gli effetti un ulteriore caso di chiusura del fallimento, ossia la specifica ipotesi di chiusura «in pendenza di giudizi», se solo si considera che il successivo articolo 120 vieta ai creditori di agire su quanto è oggetto delle liti pendenti - puntualizzazione superflua laddove la procedura fosse ancora aperta- e che la presenza di sopravvenienze attive non comporta la riapertura del fallimento, in tal modo decretando la definitività della chiusura.
Si tratta allora di capire in pendenza di quali vertenze giudiziali possa operare tale peculiare caso di chiusura. I principali interrogativi riguardano la possibile distinzione tra azioni della massa (ad esempio le revocatorie) o quelle derivanti dal patrimonio del fallimento, tra procedimenti aventi ad oggetto situazioni soggettive attive ovvero passive, tra le iniziative giudiziali che comportino il rientro diretto di denaro e quelle che invece, avendo ad oggetto l’apprensione di beni, debbano poi implicare una successiva ulteriore fase liquidatoria.
Il documento del Cndec offre un quadro riepilogativo dei vari orientamenti sviluppatisi, per poi soffermarsi con particolare attenzione sulle prassi instaurate da numerosi Tribunali, nel tentativo di ricondurre sotto princìpi omogenei i casi in cui, ai sensi dell’articolo 118, 2 comma, il curatore possa considerarsi abilitato ad avviare il processo di chiusura anticipata del fallimento, anche in pendenza di giudizi, stabilendo altresì se e in quale misura debbano essere accantonate le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri.
Come riferisce il Cndec, alcuni Tribunali (come quello di Messina) hanno considerato possibile la chiusura anticipata anche in costanza di procedure esecutive promosse dalla curatela o dal fallito e proseguite dalla curatela, impostazione pesantemente criticata da quella dottrina che non ha mancato di osservare come la norma parli di “giudizi” e “stati e gradi”, concetti propri della giurisdizione cognitiva, ma estranei a quella esecutiva.
Altre corti (come il Tribunale di Crotone) hanno precisato che la chiusura è preclusa in presenza di giudizi promossi dalla curatela per ottenere la restituzione di un bene, proprio perché, come si accennava poc’anzi, l’esito positivo della vertenza presupporrebbe l’avvio di una ulteriore fase liquidatoria.
Infine molti Tribunali hanno ritenuto opportuno tracciare delle linee guida comuni, attraverso cui procedere a una sistematica verifica circa la sussistenza dei presupposti di applicabilità della norma per tutte le procedure fallimentari particolarmente risalenti, nella piena consapevolezza che il principale obiettivo è quello di allontanare quello che autorevole dottrina ha definito «lo spettro aleggiante della Legge Pinto».