Imposte

Il neo-protezionismo ostacola la collaborazione internazionale

di Alessandro Galimberti

La rivoluzione fiscale promossa da Donald Trump rischia di diventare una gamba non trascurabile del neo-protezionismo repubblicano. La diminuzione delle aliquote della corporate tax arriva infatti a valle del processo di isolazionismo fiscale che gli Usa hanno deciso di intraprendere negli ultimi mesi dopo aver varato, solo otto anni fa, la battaglia globale al nero internazionale, quantomeno per la quota imputabile ai contribuenti in fuga dall’Internal Revenue Service (l’agenzia fiscale di Washington).

L’abbattimento delle aliquote, come in ogni rivoluzione fiscale sotto qualunque latitudine, pone al Department for the Treasury il problema della ricerca di gettito alternativo. Le ipotesi formulate dal Blueprint repubblicano della scorsa estate propongono l’introduzione della cosidetta border adjusted tax, una misura a effetto equivalente che va a colpire le importazioni, ma non esaurisce qui i suoi effetti. Che sono più complicati se intrecciati con il progressivo arretramento degli Usa dal sistema di trasparenza e collaborazione fiscale internazionale, che per assurdo furono loro stessi a varare negli scorsi anni, pur nell’ottica “unilaterale” dei trattati Fatca.

In particolare, a partire dal 2017 gli Usa hanno di fatto congelato l’implementazione del progetto Beps (contro l’erosione della base imponibile e lo scivolamento dei profitti nei paesi a fiscalità agevolata) promosso dall’Ocse.

Non solo, l’insofferenza dei repubblicani verso la trasparenza fiscale “interna” – in sostanza nei confronti della collaborazione paritaria con altre amministrazioni estere – si è manifestata con la mancata ratifica degli ultimi trattati internazionali di assistenza reciproca, tutti arenati al Senato. Il risultato è che mentre più di cento Paesi stanno abbattendo le barriere della incomunicabilità fiscale – condividendo prassi, procedure e linguaggi dello scambio di informazioni fiscali sui contribuenti basati all’estero – la ex locomotiva di Washington ha deciso di mettersi, per ora, su un binario morto. Lo scopo di tutto ciò? Potrebbe essere significativamente collegato al neo protezionismo fiscale. Basti pensare al transfer pricing, quel meccanismo di imputazione dei costi nelle operazioni infragruppo che permette, diciamo così, la “ottimizzazione” fiscale nelle società multinazionali, scaricando costi maggiori nei paesi dove più conviene. Il transfer pricing – o meglio, il suo utilizzo corretto – non a caso è uno degli obiettivi della collaborazione internazionale. Ebbene, nell’ipotesi di border adjusted tax sin qui conosciuto, le operazioni infragruppo internazionali sui prezzi di trasferimento vengono neutralizzate, con l’effetto prevedibile che le consociate americane andranno a scaricare i costi, gonfiandoli, sulle società delocalizzate all’estero. Il risultato di tale pianificazione fiscale aggressiva sarà l’abbattimento dell’imponibile, per esempio, sulle filiali europee di companies basate in Usa. Abbattimento agevolato dal fatto che, attenuata la collaborazione e lo scambio di informazioni, diventerà molto difficile, se non impossibile, dimostrare l’abuso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©