Professione

Il ritorno in studio non basta a rilevare il rischio di recidiva

di Alessandro Galimberti

Lo svolgimento di un’attività professionale non può essere valutato in sé come indice di rischio per la recidiva, e quindi non può essere utilizzato come presupposto per applicare o per confermare una misura cautelare personale.

La Terza penale della Cassazione (sentenza 406/19) ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Riesame di Bologna aveva attenuato gli arresti domiciliari di un commercialista, sostituendo la misura con un - non meno blando - divieto di esercitare la professione per 12 mesi. L’imputato era accusato di aver commesso, in concorso con l’amministratore di fatto di una società cliente, i reati di dichiarazione infedele e di indebita compensazioni (articoli 4 e 10-quater del Dlgs 74/2000) per aver evaso Iva, Ires e altri tributi utilizzando crediti erariali inesistenti per l’ammontare di circa 128mila euro. Per i giudici bolognesi la rilevanza del danno, il richiamo a un precedente (peraltro terminato con un «non doversi procedere») e il dimostrato - nei fatti - spregio delle regole deontologiche costituivano una prognosi sufficiente per un «intenso pericolo di recidiva», considerato il probabile rientro in studio e all’attività professionale all’indomani del ritorno in libertà. Da qui la scelta del Riesame di congelare il ritorno all’attività del professionista con la misura interdittiva per la durata di un anno, prontamente impugnata dai difensori.

La Terza penale nel motivare l’annullamento con rinvio ripercorre i più recenti orientamenti seguiti all’ennesimo intervento legislativo in materia (legge 47 del 2015) e, pur senza aderire alla linea “massimalista” - secondo cui il giudice deve trovare e dimostrare l’occasione prossima in cui l’indagato ricadrà nell’illecito (tra gli altri 21350/16; 24477/16; 50454/15) - pone dei paletti chiari per la valutazione del pericolo di reiterazione. A parere della Corte la valutazione prognostica deve allora considerare la permanenza della pericolosità personale dell’indagato (dal momento della commissione a quello del giudizio) «desumibile dall’analisi soggettiva della sua personalità» ma anche la presenza di «condizioni oggettive ed “esterne” all’accusato, ricavabili da dati ambientali o di contesto che possano attivarne la latente pericolosità, favorendone la recidiva».

In questo contesto il mero esercizio di un’attività professionale, lecita in sé, non può essere considerato tout court un’occasione per delinquere, tanto più se il riferimento ai precedenti specifici è lontano nel tempo (in questo caso nel 2009, peraltro terminato con un nulla di fatto) e se il coinvolgimento nell’indagine esaminata è stato marginale rispetto agli stessi coindagati. Per non parlare della valutazione secondo cui l’indagato «in passato aveva dato prova di essere pronto a commettere reati tributari», circostanza che «non autorizza a ritenere concreto ed attuale il pericolo di recidiva». Ciò che ne fa, appunto, una motivazione «assertiva e carente» sia sotto il profilo della probabilità di ricaduta, sia sotto quello della «attualità e concretezza».

Cassazione, ordinanza 406/2019

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