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La composizione negoziale della crisi a rischio ingolfamento: requisiti troppo ampi

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di Giovanni B. Nardecchia

Il Dl 118/21 ha prorogato a maggio 2022 l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e al 31 dicembre 2023 l’allerta, rinvio “compensato” dall’introduzione di un nuovo strumento di ausilio alle imprese in difficoltà: la composizione negoziale della crisi. Istituto che dovrebbe sostituire, di fatto, le procedure di allerta e composizione della crisi ritenute non adeguate perché non consentirebbero quella necessaria gradualità nella gestione della crisi che è richiesta dalla situazione determinata dalla pandemia e rischierebbero di creare incertezze e dubbi applicativi in un momento in cui si invoca, da più parti, la massima stabilità nella individuazione delle regole.

Obiettivi, sicuramente condivisibili, che rischiano di essere vanificati a fronte della norma sui requisiti oggettivi d’accesso alla procedura contenuto nell’articolo 2 comma 1. Il richiamo alle «condizioni di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza», evidenza la volontà di introdurre una procedura “omnicomprensiva” che abbracci tutte le possibili tipologie della crisi, da quella appena iniziale all’insolvenza conclamata, sia pur potenzialmente reversibile.

Opzione che presenta numerosi profili problematici. Il decreto legge fa riferimento anche allo squilibrio patrimoniale, una sorta di probabilità di crisi, riferimento che rischia di innescare un numero assai elevato di segnalazioni ex articolo 15 del Dl.

Invero, è facile prevedere che alla scelta “anticipatrice” del legislatore si sommerà un atteggiamento oltremodo prudente degli organi di controllo, posto che la tempestiva segnalazione può essere valutata ai fini dell’esonero o dell’attenuazione di responsabilità ai sensi dell’articolo 2407 del Codice civile. Il che determinerà a cascata un numero considerevole di accessi alla procedura, proprio quello che si voleva evitare con la messa da parte della procedura di allerta del Codice. Non minori perplessità suscita la possibilità di accesso alla procedura dell’imprenditore insolvente.

Nel corso della procedura l’imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa (articolo 9 comma 1) essendo tenuto, soltanto in caso di probabilità d’insolvenza, a gestire l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Formula che implica dei limiti assai “light” all’agire dell’imprenditore, ben lontani anche solo dalla gestione conservativa prevista dall’articolo 2486 del Codice civile al verificarsi di una causa di scioglimento. Gestione che prescinde dalla tutela degli interessi dei creditori, che in caso d’insolvenza dovrebbero invece essere massimamente tutelati. Tutela assai flebile dato che, ad esempio, a fronte di un meccanismo di concessione di misure protettive semi automatico, il debitore rimane libero di effettuare i pagamenti con l’unica necessità di rapportarsi all’esperto per quanto concerne il compimento di atti di straordinaria amministrazione. Limiti ed obblighi ben diversi da quelli collegati al deposito della domanda ex articolo 161 comma 6 legge fallimentare (obblighi informativi, vigilanza del commissario giudiziale, rilevanza degli atti di frode).

La direttiva 1023/19 rinvia alla legislazione degli Stati membri (articolo 2, paragrafo 2) per la definizione sia dello stato d’insolvenza che della “probabilità d’insolvenza”. Probabilità d’insolvenza, coincidente, in linea di massima, con la nozione di crisi offerta dal Codice (articolo 2) che parrebbe essere la miglior soluzione per una corretta individuazione del requisito d’accesso alla procedura.