La contestazione non può derivare da statistiche
La presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori redditi accertati alla società a ristretta base è stata oggetto di una presa di posizione della Associazione italiana dottori commercialisti, contenuta nella norma di comportamento 198/2017. Tre gli aspetti trattati: le ipotesi che legittimano la presunzione; i casi in cui la presunzione non può operare; la quantificazione del reddito in capo ai soci.
La presunzione
Perché sia legittimo l’accertamento in capo ai soci occorre che il maggior reddito ricostruito in capo alla società implichi una comprovata esistenza di corrispondenti disponibilità finanziarie occulte. Ci sono due fattispecie in cui questa condizione si verifica, e sono quelle che riguardano la presenza di ricavi non dichiarati (corrispettivi in nero) e la presenza di costi fittizi (che, come tali, hanno consentito lo storno di ricchezza dalla società e la costituzione di una provvista in nero nella diponibilità dei soci).
In questo caso l’accertamento, che si basa su una presunzione semplice, rileva maggiori redditi che non sono più nella disponibilità della società, e che quindi possono essere considerati come distribuiti ai soci che della società hanno il controllo.
I casi esclusi
Quando i maggiori redditi contestati alla società derivano da elementi figurativi, non suscettibili di generare disponibilità finanziaria, l’imputazione di utili ai soci perde senso dal punto di vista logico. Sul fronte dei maggiori ricavi, è il caso di: determinazione di maggiori valori meramente figurativi per l’applicazione di norme statistiche (studi di settore, società di comodo); rideterminazione del reddito a fronte di norme specifiche (società controllate estere).
Dal punto di vista dei costi, non può emergere un maggior reddito accertabile ai soci quando la rettifica riguarda: costi ritenuti in parte o in tutto indeducibili; recupero a tassazione di ammortamenti o accantonamenti; spostamenti di costi per il principio della competenza; applicazione di regole specifiche di quantificazione (acquisti da fornitori black list, applicazione del valore normale quantificato con le norme del transfer price).
In queste ipotesi, il maggior reddito che si forma sulla società non dà luogo a un “arricchimento” della società e dei soci; a differenza di quanto spesso avviene, quindi, le rettifiche fiscali dovrebbero esaurirsi sul soggetto collettivo, senza interessare i soci.
La misura del dividendo
Infine, secondo l’Aidc, la quantificazione del reddito in capo ai soci deve tenere conto dei maggiori costi in termini di imposte che derivano dall’accertamento in capo alla società. Pertanto, il maggior reddito accertato sulla società non può essere considerato interamente distribuito ai soci. L’importo che entra nella disponibilità dei soci è al netto delle maggior imposte che la società è chiamata a corrispondere proprio per la quantificazione del maggiore imponibile.
Si tratta di un aspetto delicato: da un lato, vale l’osservazione riportata, dall’altro va anche sottolineato che la riduzione dell’utile in capo al socio per effetto delle imposte non si verifica immediatamente (l’importo teoricamente distribuito è materialmente uguale alla totalità del maggior ricavo), bensì nell’esercizio in cui gli utili societari si riducono per effetto della contabilizzazione delle maggiori imposte accertate. In definitiva, anche se con uno sfasamento temporale, le maggiori imposte riducono sempre il reddito distribuibile ai soci. Peraltro, in sede di liquidazione delle pratiche di voluntary disclosure, seppure con comportamenti non del tutto omogenei, l’orientamento degli uffici è stato quello di considerare gli utili in capo ai soci al netto degli importi pagati dalla società a titolo di imposte nelle sole ipotesi in cui vi era stato un riversamento di tali somme da parte dei soci stessi nelle casse sociali.