Contabilità

La sostanza regge la competenza

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di Franco Roscini Vitali

La competenza è il criterio temporale con il quale i componenti positivi e negativi di reddito sono imputati nel conto economico ai fini della determinazione del risultato d'esercizio. L'applicazione del principio di competenza impone che i costi debbano essere correlati ai ricavi: una volta stabilito l'esercizio di competenza dei ricavi, a questi sono correlati/contrapposti i relativi costi. Infatti, per applicare la correlazione, sono i costi che devono seguire i ricavi: la Cassazione, con ordinanza 23171/17, risolve (correttamente) a favore di una società un contenzioso con l'agenzia delle Entrate.

La società, che svolge attività di trasformazione di lingotti di oro puro in prodotti semilavorati vendendoli a terzi, stipula con alcune banche contratti di prestito d'uso dell'oro. In base a tale contratti il trasferimento giuridico della proprietà dell'oro non avviene al momento della consegna del metallo, ma successivamente se, in alternativa al restituzione, è esercitata l'opzione per l'acquisto. La società contabilizza i costi correlandoli ai ricavi realizzati con la cessione dei semilavorati, anche se l'opzione di acquisto non è stata ancora formalmente esercitata e lo sarà in un esercizio successivo.

Secondo le Entrate, invece, i costi sono di competenza dell'esercizio in cui la società esercita l'opzione. La Cassazione, salvaguardando il principio di competenza ovvero di correlazione, condivide il comportamento della società.

Si tratta di una questione che, come molte altre, non dovrebbe più porsi dopo l'introduzione nell'articolo 2423-bis del Codice civile del principio generale della rappresentazione delle operazioni e dei contratti in base alla sostanza economica, come declinato dai principi contabili che sono basati su tale postulato: questo, per la derivazione rafforzata, rileva anche fiscalmente.

La problematica riguarda molte altre situazioni e altri contratti e non si discosta molto da quella relativa all'affitto di azienda, in particolare quando include l'affitto delle rimanenze con gli ulteriori problemi dovuti alla vendita con rilevazione dei ricavi a fronte dei quali deve essere iscritto un costo di acquisto. Problematiche simili si verificano, per l'iscrizione di ricavi e costi, nei contratti di consignment stock, utilizzati sovente con controparti comunitarie.

Sono contratti in cui un'azienda trasferisce, nel magazzino del proprio cliente, determinati beni, mantenendone la proprietà giuridica: il cliente preleva i beni in base alle proprie necessità e le fatture sono emesse al momento dei vari prelievi. Lo schema negoziale del consignment stock si basa sul trasferimento di beni di proprietà del fornitore presso un deposito del cliente, il quale ha facoltà, in base alle sue esigenze, di effettuare prelievi in qualsiasi momento. Con tale contratto il compratore sposta in avanti il momento dell'uscita finanziaria, perché, in assenza del prelievo, nonostante abbia la possibilità di ritirare la merce dal magazzino a sua discrezione, non effettua alcun pagamento. Per il bilancio si devono analizzare le clausole contrattuali per verificare a quale delle due imprese sono riconducibili i principali benefici e rischi (es. perimento) relativi ai beni, al di là del fatto che giuridicamente la prima impresa resta proprietaria degli stessi. In sostanza, si deve appurare quale delle due imprese “controlla” i beni. Per esempio, se il prezzo è stabilito al momento della consegna o successivamente e se il cliente ha facoltà di restituzione senza alcuna penale: in questo caso, infatti, si potrebbe presumere che i beni non sono stati ceduti.

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