Per contestare la sovrafatturazione non bastano le presunzioni
La prova dell’effettività di una prestazione di servizi, in questo caso una sponsorizzazione sportiva, compete al contribuente ma, una volta che la stessa sia provata come esistente, l’agenzia delle Entrate non può presumerne una inesistenza parziale tramite richiamo “per relationem” ad altri casi di sovrafatturazione accertati per analoghe prestazioni del medesimo fornitore relative a clienti diversi.
Sono questi i principi statuiti dalla Ctr Veneto con la sentenza 35/3/2018 (pres. Di Martino, rel. Borghi). L’Agenzia contestava ad una società costi per prestazioni sovrafatturate nel settore delle corse automobilistiche, sostenendo che anche le stesse, alla luce di altre verifiche e dichiarazioni raccolte dai titolari di altre aziende clienti della società fraudolenta (che confermavano e quantificavano nel 50% la sovrafatturazione) potessero essere accertate come false anche nei confronti di altre controparti dell’emittente, anche in assenza di prove certe e dirette. Tali prestazioni, secondo il Fisco, sarebbero state illecitamente fruite con le medesime modalità, facendo così assumere valore probatorio decisivo, quasi per contaminazione, a falsità desunte da altre posizioni fiscali.
I giudici, invece, facendo corretta applicazione della distribuzione dell’onere della prova e dopo aver rilevato che tutte le dichiarazioni e verifiche richiamate in atti non riguardavano in alcun modo la società appellante, hanno ribaltato la sentenza di primo grado. La motivazione dell’accertamento, infatti, si fondava solamente su elementi indiziari di altri controlli estranei al verificato e, quindi, per il collegio veneto non poteva ritenersi adeguatamente assolto l’onere della prova né con precisione, né in maniera presuntiva qualificata solo perché così fanno gli altri.
Dalla sentenza, peraltro, emerge che l’ufficio, sia nell’accertamento che in contenzioso, aveva addotto anche altri motivi a sostegno dell’inesistenza delle prestazioni, quali il fatto che il contratto stipulato fra le imprese sarebbe stato riconducibile al modus operandi tipico della società fraudolenta ed immaginando anche di poter sostenere la falsità della prestazione perché i costi «non hanno procurato alcun ritorno di immagine», in quanto dedotti da una holding non esercente attività commerciale, sostenendo curiosamente l’ipotesi di inesistenza anche asserendone la non inerenza.
Accogliendo l’appello e concludendo per l’infondatezza dell’accertamento, la Ctr rileva che neanche queste circostanze possono bastare per dare per provato ciò che tale non è, ovvero che si trattasse di «prestazioni pubblicitarie oggettivamente inesistenti o, comunque, parzialmente inesistenti», notandosi, peraltro, come i giudici veneti non abbiano mancato di sottolineare che non può assolvere l’onere della prova per presunzioni qualificate una motivazione perplessa e che definisca, alternativamente, come «totalmente o parzialmente inesistenti» le stesse prestazioni. Che, ovviamente, se realmente esistono (e non è provato che le fatture siano “gonfiate”) non possono essere mai considerate inesistenti a metà.
Ctr Veneto, sentenza n. 36/3/2018