Prestiti infruttiferi, il rebus dei soci persone fisiche
Un tema importante nell’ambito delle implicazioni della derivazione rafforzata è quello del finanziamento infruttifero eseguito dai soci, argomento che è stato oggetto di una previsione ad hoc nel decreto ministeriale del 3 agosto 2017.
Per le imprese che contabilizzano (per obbligo o per scelta) il debito verso i soci con il criterio del costo ammortizzato, si ha una riduzione del valore nominale del debito e la rilevazione del differenziale, tra somma ricevuta e valore contabile del debito, in una posta collocata tra i proventi finanziari o, più frequentemente, in una riserva di patrimonio netto. L’articolo 1 del decreto ministeriale del 3 agosto 2017 stabilisce che, nel caso di finanziamento da parte di socio/società controllante, se il componente positivo è imputato dalla società partecipata a riserva, non si ha rilevanza fiscale per gli interessi passivi figurativi dalla stessa allocati tra i costi. Quindi, solo se il componente positivo fosse imputato a conto economico si avrebbe rilevanza fiscale anche per quello negativo.
Questo passaggio, tuttavia, non considera ciò che potrebbe emergere se il finanziamento fosse eseguito da soggetti diversi da quelli citati nel decreto del 3 agosto 2017, cioè la tipica e frequente casistica del socio, persona fisica, che magari detiene una partecipazione del 50% ed esegue un finanziamento infruttifero. Questa ipotesi non è considerata dal decreto del 3 agosto 2017 e da ciò potrebbe derivare la conclusione che non si applica la deroga alla derivazione rafforzata. Detto in altri termini, avrebbe rilevanza fiscale quanto imputato al conto economico proprio in funzione del principio di derivazione rafforzata, il che genererebbe una situazione di indubbio vantaggio: basti pensare al fatto che la società dedurrebbe componenti negativi imputati a conto economico, ma solo figurativi. Per contro, il socio persona fisica non avrebbe imponibile poiché per lui sono rilevanti solo gli interessi effettivamente percepiti, mentre nel caso in esame non si ha alcuna effettiva percezione di somme in denaro.
Il tema è delicato e una conferma da parte delle Entrate sarebbe opportuna. Ma le implicazioni fiscali non si fermano qui. Occorre anche riflettere sulla natura della riserva che si forma se la società partecipata sceglie di collocare il differenziale a patrimonio netto. Pur notando che, se fosse stata scelta l’allocazione a conto economico, il differenziale, quale interesse attivo, avrebbe generato una riserva di utili, si ritiene che debba prevalere la natura di riserva di capitale, motivata dal fatto che il socio che ha eseguito un finanziamento infruttifero ha capitalizzato la società. Se la riserva ha natura di capitale, la sua eventuale distribuzione non genera alcun reddito in capo al socio fino a capienza del valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Bisogna però tenere conto che l’incremento del costo della partecipazione per il socio/società finanziatrice non assume rilevanza fiscale, per cui la distribuzione potrebbe generare un problema da “sottozero” e la genesi di un reddito da dividendo.
Infine, la riserva creata dalla società finanziata dovrebbe trovare allocazione, nel prospetto delle riserve del modello Redditi, al rigo 131, cioè tra quelle di capitale.