Contabilità

Senza abuso del diritto partecipazioni cedute con registro fisso

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di Giulio Andreani

La cessione di partecipazioni è di per sé soggetta a tassa di registro fissa: per renderla soggetta all’imposta proporzionale occorre infatti che si configuri un abuso del diritto. È quanto si evince dagli orientamenti espressi dalle Entrate con i più recenti interpelli inerenti a tale fattispecie. In assenza di una condotta elusiva, inoltre, un atto non può essere qualificato in due modi diversi in relazione a tributi diversi.

Con la risposta all’interpello 138 l’Agenzia ha riconosciuto che non è abusivo ai fini dell’imposta di registro (oltre che delle imposte sui redditi) il conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni della società conferitaria. Nulla di sensazionale alla luce delle modifiche apportate all’articolo 20 del d.p.r. n. 131/1986, che disciplina il predetto tributo, dalla legge di Bilancio 2018; nella sua risposta l’Agenzia ha però anche confermato che la cessione di partecipazioni successiva al conferimento è soggetta alla tassa fissa di registro, ribadendo quanto affermato con la risposta dell’11 aprile (liquidando un opposto indirizzo assunto da alcuni uffici periferici peraltro avallato da alcune sfortunate sentenze).

La prima conseguenza

Ciò posto, se la tassa fissa si applica nel caso del conferimento seguito dalla cessione delle partecipazioni, dev’essere a maggior ragione applicata a una cessione di partecipazioni non preceduta da alcun conferimento.

Non contrasta con questa conclusione l’ulteriore affermazione contenuta nella risposta 138, secondo cui si applica tuttavia alla cessione di partecipazioni l’imposta proporzionale, se successivamente all’acquisto l’acquirente incorpora la conferitaria; l’Agenzia lo ha infatti affermato non perché la cessione di partecipazioni produca di per sé gli stessi effetti della cessione d’azienda, ma perché ritiene che tale cessione - seguita dall’incorporazione della conferitaria nell’acquirente - dia luogo a un abuso del diritto, in quanto concorre a produrre (in questo caso sì) i medesimi effetti di una cessione diretta di azienda da chi cede le partecipazioni a chi le acquista: lo ha affermato quindi sul presupposto della natura elusiva dell’operazione e non in base al citato articolo 20, che attiene all’interpretazione dell’atto e non alla riqualificazione dell’operazione in un’ottica anti-abusiva.

I due articoli a confronto

A ben vedere la previsione del citato articolo 20 non conduce a risultati diversi da quelli dell’articolo 1362 del Codice civile, ai sensi del quale nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Le due disposizioni infatti, in particolare con le modifiche apportate all’articolo 20 dalla legge di Bilancio 2018, divergono solo perché lo spazio interpretativo consentito da quest’ultima norma è meno ampio di quello previsto dall’articolo 1362 Cc., attribuendo quest’ultimo rilievo anche al comportamento delle parti successivo alla stipula del contratto, ovvero qualora gli effetti del contratto non corrispondano alla volontà delle parti che lo hanno stipulato.

Ne discende che, se, in forza dell’articolo 20, anche nella versione anteriore alle modifiche, ci sono i presupposti per qualificare ai fini dell’imposta di registro un determinato atto (A) in un altro atto (B), significa generalmente che le parti contraenti hanno voluto stipulare non l’atto A, ma l’atto B, e conseguentemente che sotto ogni profilo - fiscale ed extra-fiscale e, nell’ambito fiscale, per tutte le imposte e non solo per quella di registro - rilevano gli effetti giuridici generati dal secondo tipo di negozio giuridico e non dal primo.

La qualificazione dell’atto

Pertanto, se lo stesso atto è qualificato in un certo modo ai fini di un tributo e in un altro ai fini sostanziali (o di altri tributi), significa che una delle due qualificazioni è errata e l’errore è ancor più evidente quando è la stessa Amministrazione ad applicare a un atto l’imposta di registro in base a una certa qualificazione (ad esempio quella di cessione di azienda a un contratto di cessione di partecipazioni) e ne assume al tempo stesso una diversa (ad esempio quella della cessione di partecipazioni) ai fini delle imposte sui redditi, in assenza di una norma fiscale che qualifichi diversamente l’atto di cui trattasi.

Non v’è dubbio che gli uffici possano e debbano valutare gli effetti giuridici di un contratto prescindendo dal nomen juris e dalla forma apparente dello stesso, ma, una volta individuati, è incoerente e contraddittorio trattare quel contratto sulla base di quegli effetti a taluni fini e non anche ad altri.

Così come non v’è dubbio che alcuni atti sono inopponibili al Fisco pur rimanendo fermi i loro effetti tra le parti, nel qual caso si genera una divaricazione tra le loro conseguenze ai fini fiscali e quelle prodotte sul piano sostanziale. Tuttavia tale divaricazione è consentita dalla legge solo in presenza di abuso del diritto; quindi, se la stessa agenzia delle Entrate non contesta l’abuso del diritto - e l’applicazione dell’articolo 20 nulla ha a che vedere con tale fattispecie - gli effetti di un atto, indipendentemente da quali essi siano all’esito della interpretazione del suo reale contenuto, non possono assumere diverso significato a seconda del tipo d’imposizione da applicare a quell’atto.

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