Imposte

Un «cultural box» per valorizzare il patrimonio culturale

di Francesco Pistolesi


I beni culturali rappresentano una delle grandi risorse del nostro Paese, anche dal punto di vista dello sviluppo economico.

Il relativo regime fiscale, pertanto, dovrebbe non solo favorirne la conservazione (riducendo il prelievo tributario a carico dei possessori) ma anche stimolarne il corretto impiego come fattori di iniziative imprenditoriali, così come sono meritevoli di sostegno le attività d’impresa rivolte alla tutela, ripristino e promozione di questi beni.

Ciò è legittimo alla luce dei principi costituzionali nazionali e della disciplina europea.

Infatti, le agevolazioni connesse ai beni culturali attuano l’articolo 9 della Costituzione e non contraddicono il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Carta, dandone anzi corretta applicazione con la discriminazione qualitativa dei presupposti d’imposta originanti dall’utilizzo o dalla valorizzazione di detti beni.

Non solo, tali agevolazioni favoriscono il coinvolgimento sussidiario di risorse private nella gestione di beni dotati di indubbio interesse generale, nel rispetto dell’articolo 118, comma 4, della Costituzione. Dunque, vanno apprezzati gli strumenti, ivi compresi gli incentivi fiscali, che catalizzino l’apporto di capitali e professionalità privati nella gestione del patrimonio culturale. Né queste misure di favore contrastano con le norme sugli «aiuti di Stato», in virtù dell’articolo 107, paragrafo 3, del Trattato di funzionamento dell’Unione europea, che consente gli «aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio» purché non alterino «le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune».

La cura e la promozione dei beni culturali andrebbero, quindi, correlate in un programma unitario e coerente di agevolazioni fiscali, che persegua pure l’obiettivo di premiare le attività d’impresa che interessino questi beni, favorendone così le positive ricadute sul tessuto economico e sociale italiano.

Sennonché, finora è mancata la necessaria visione d’insieme.
Da un lato, abbiamo assistito alla riduzione delle agevolazioni esistenti (dall’incremento di Irpef e Imu sugli immobili culturali e delle imposte indirette sui relativi trasferimenti all’aggravio indistinto della tassazione sulle rendite finanziarie a scapito delle fondazioni bancarie, che offrono un sostegno decisivo alle attività culturali) e, dall’altro lato, all’introduzione di nuovi incentivi (qual è il Art-bonus).

Si ha l’impressione di confrontarsi con iniziative disorganiche ed estemporanee. Certa è, comunque, l’assenza di agevolazioni per le imprese che si occupino della cura dei beni culturali o li impieghino come fattori di produzione, nel rispetto delle norme che tutelano il patrimonio nazionale.

Oggi si può far leva solo sulla disciplina delle start-up innovative – ossia le imprese che sostengono spese per ricerca e sviluppo pari al 15% del fatturato oppure impiegano prevalentemente personale laureato o hanno una privativa industriale relativa a un’invenzione – che godono di rilevanti benefici fiscali.

L’imprenditorialità innovativa, «a vocazione culturale», può esplicarsi sia nel campo della conservazione (si faccia il caso di nuove tecniche di restauro) che della valorizzazione del patrimonio culturale (si pensi a tutte le forme di «fruizione digitale» del patrimonio medesimo). Ma non v’è una misura ad hoc che sostenga le ricordate imprese del settore culturale.

Nella passata legislatura era stato fatto un tentativo per promuovere, in quest’ambito, le start-up attraverso una proposta di legge che prevedeva:
•vere proprie «start-up culturali» (operanti, tra l’altro, nel settore dei servizi o prodotti innovativi ad alto valore tecnologico per il patrimonio culturale), le quali, in aggiunta alle misure per quelle innovative, avrebbero fruito di un credito d’imposta pari al 65 per cento dei costi per i necessari strumenti e investimenti tecnologici;
•l’estensione del meccanismo del crowdfunding, consentendone l’uso per il finanziamento delle «start-up culturali» e degli enti pubblici che gestiscono beni culturali (i quali avrebbero potuto predisporre piattaforme web per acquisire donazioni direttamente dal pubblico).

Il 26 settembre 2017, la proposta di legge è stata approvata dalla Camera in forma assai diversa rispetto ai propositi originari, prevedendo la ben distinta figura della «impresa culturale e creativa», per la quale sarebbe stato possibile utilizzare in forma (quasi) gratuita i beni del patrimonio pubblico inutilizzati (caserme, ospedali, etc.), e non contemplando alcuna agevolazione fiscale. Il Senato non si è pronunciato prima della fine della legislatura, di modo che lo stesso testo potrebbe essere ripresentato ed esaminato nuovamente dalla Camera – stando al relativo regolamento – entro 6 mesi dall’avvio della legislatura.

Tuttavia, se il Parlamento dovesse cimentarsi con questo tema, potrebbe suggerirsi l’adozione di un innovativo modello agevolativo, ispirato al patent box, che incentivi fiscalmente i redditi derivanti dall’impiego dei beni culturali.

Si potrebbe cioè prospettare un « cultural box», ossia una disciplina agevolativa opzionale di tassazione dei redditi derivanti dalle attività d’impresa che, sfruttando (correttamente, s’intende) i beni culturali, ne permettano la tutela e la valorizzazione. Ciò potrebbe avvenire parametrando il beneficio fiscale all’investimento compiuto per la promozione – sotto forma di ripristino, ristrutturazione, adeguamento, etc. – dei beni culturali, ossia detassando tali redditi in misura effettivamente proporzionale ai costi riguardanti i beni culturali (previa rinuncia alle eventuali agevolazioni tradizionali applicabili in materia).

Così si rispetterebbe la Costituzione, discriminando qualitativamente le fonti reddituali che traggono origine dai beni culturali. Sarebbe inoltre favorito il coinvolgimento sussidiario di risorse e iniziative private in favore di beni di interesse generale.

Non solo, la detassazione dei redditi in misura proporzionale alle spese presenterebbe dei vantaggi rispetto alle tradizionali misure agevolative, in quanto premierebbe gli operatori economici capaci di trarre profitto dai beni culturali adeguatamente valorizzati.

Al contempo, per sostenere anche le imprese dedite alla conservazione dei cespiti culturali, se in ambito europeo fossero in futuro riformate le aliquote agevolate ai fini Iva, potrebbe auspicarsi la riduzione del prelievo, quanto meno da parte italiana, per tutte le attività di recupero, restauro, manutenzione e, più in generale, valorizzazione dei beni (mobili e immobili) di interesse culturale.

Tratto da: Norme&Tributi Mese settembre 2018

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©