Vendita di opere d’arte, gli atti collegati fanno scattare l’attività commerciale
L’attività di compravendita di opere d’arte e di beni di antiquariato o da collezione si è incrementata nel corso degli ultimi anni, anche in conseguenza della diffusione di piattaforme che consentono di effettuare gli scambi online, ma la mancanza di una disciplina fiscale ad hoc sta generando incertezza negli operatori e dando luogo ad un notevole contenzioso.
Nella risposta all’interrogazione parlamentare 5-01718 del 2019 è stato affermato che i redditi derivanti dalla cessione di opere d’arte possono risultare imponibili in base all’articolo 67, comma 1, lettera d), del Tuir e che la dimostrazione del carattere occasionale o meno dell’attività commerciale «implica sovente complesse attività di analisi, dagli esiti spesso incerti, finalizzate a ricostruire una pluralità di atti – anche compiuti nell’arco di diversi anni – tra loro collegati e preordinati al conseguimento di un reddito».
Tale attività può, però, rientrare anche tra quelle produttive di reddito d’impresa o risultare non imponibile qualora non sussistano i presupposti per considerarla commerciale.
Le attività commerciali
Nell’ambito delle attività commerciali svolte per professione abituale, che generano reddito d’impresa ex articolo 55 del Tuir, rientrano quelle dei mercanti d’arte, che effettuano, anche in assenza di un’organizzazione imprenditoriale, un’attività «intermediaria di circolazione dei beni» di cui all’articolo 2195 del Codice civile.
Tra le attività commerciali non esercitate abitualmente – che danno luogo a redditi diversi di cui all’articolo 67, comma 1, lettera i) – può, invece, collocarsi quella svolta dal contribuente che acquista e rivende le opere in via non abituale, ma comunque mediante una serie di atti preordinati e connessi tra di loro, posti in essere con finalità “speculativa”. La Cassazione ha affermato che se dall’operazione deriva un reddito rilevante il requisito della “frequenza” dell’attività può essere apprezzato con minor rigore, purché venga comunque effettuata una serie coordinata di atti economici (si vedano le sentenze 2711/2006 – riguardante la cessione di oggetti di antiquariato – e 8196/2008 – relativa alla compravendita di «lotti di oro e di altri oggetti preziosi usati dalle case d’asta»).
In entrambe le ipotesi si ritiene che assumano rilievo, ai fini impositivi, l’esistenza di un collegamento tra l’acquisto dei beni e la loro successiva rivendita, con finalità di lucro.
Le attività «amatoriali»
Nell’attività “amatoriale” è, invece, assente una preordinazione di atti finalizzati all’alienazione dei beni e al conseguimento del profitto (si tratta dei casi, ad esempio, dei collezionisti e di chi vende beni ricevuti a seguito di donazione o eredità).
Questa tipologia di attività è irrilevante ai fini reddituali perché le fattispecie imponibili sono soltanto quelle tassativamente indicate nel Tuir, nel quale non è contenuta una norma analoga a quella presente, invece, nell’articolo 76 del Dpr 597/1973, che dava rilevanza alle plusvalenze derivanti da operazioni effettuate con fini speculativi (non rientranti nel reddito d’impresa) e considerava tali, per presunzione assoluta, «l’acquisto e la vendita di oggetti d’arte, di antiquariato o in genere da collezione», se tra l’acquisto e la vendita non fossero trascorsi più di due anni.
Si ricorda che la Consob ha ritenuto, nella Comunicazione Dtc/13038246/2013 – relativa alla compravendita di diamanti da investimento –, che non possono qualificarsi quali prodotti finanziari (idonei a generare redditi di natura finanziaria) le operazioni di investimento in attività reali o di consumo che, «anche se concluse con l’intento di investire il proprio patrimonio, sono essenzialmente dirette a procurare all’investitore il godimento del bene, a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore stesso».
La Cassazione ha precisato, nella sentenza 2736/2013, che si è in presenza, invece, di un «investimento di natura finanziaria» se un’opera d’arte è venduta a prezzo scontato ed è concesso all’acquirente di risolvere il contratto e restituirla ottenendo un importo pari al prezzo di listino del bene, perchè il contratto non ha lo scopo di consentire il godimento dei beni da parte del contribuente (si veda, in senso analogo, la sentenza 5911/2018).
L’agenzia delle Entrate ha confermato, nella risoluzione 5/E del 2001, che non svolge un’attività commerciale un’associazione che, dopo aver ricevuto in donazione delle opere d’arte, le vende all’asta «allo scopo di assicurare all’ente le risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento delle attività volte al raggiungimento dei propri fini istituzionali», non sussistendo «l’elemento dell’intermediazione nello scambio dei beni ma una semplice operazione di dismissione patrimoniale».