Imposte

Irap e autonoma organizzazione, quando ad eludere gli impegni è il legislatore

di Raffaele Rizzardi

La storia dell’ipotetica maggior capacità contributiva di chi dispone di una autonoma organizzazione risale alla notte dei tempi tributari. Nell’opinione comune deve pagare di più chi guadagna anche senza contribuire con il suo lavoro, e che quindi produce reddito anche se si trova in vacanza o non può andare al lavoro per una indisposizione.
Negli anni ’50 del secolo scorso avevamo due distinte categorie dell’imposta di ricchezza mobile, la B con una aliquota superiore alla C/1. Sorto il dubbio sul confine tra le due ipotesi, si dovette aggiungere l’articolo 85-bis del testo unico delle imposte dirette per individuare il numero massimo di dipendenti delle imprese artigiane (sino a dieci in funzione dell’attività esercitata) per la classificazione in C/1. Con la riforma tributaria degli anni ’70 scoppia il tema dell’Ilor, frutto di innumerevoli liti tributarie, che si chiuderà con la modifica normativa avente ad oggetto l’esonero da questo tributo per i professionisti e per le imprese sino a tre addetti, compresi titolare e soci (oltre agli apprendisti, sino a tre).
L’Irap è l’erede naturale di queste vicissitudini, attraverso la nozione di “autonoma organizzazione”, le cui contorsioni interpretative si susseguono in continuazione. Talora la giurisprudenza ammette un addetto, talaltra la sua presenza anche part-time fa perdere l’esonero, così come si discute sull’altro tema giurisprudenziale della dotazione di beni strumentali strettamente necessaria.
Si spiega così perché la legge delega dello scorso anno avesse dato mandato al governo di chiarire la nozione di autonoma organizzazione, anche mediante la definizione di criteri oggettivi, adeguandola ai più consolidati princìpi desumibili dalla fonte giurisprudenziale, ai fini della non assoggettabilità dei professionisti, degli artisti e dei piccoli imprenditori.
Ovvio il riferimento ai principi giurisprudenziali, principi che però stentano a consolidarsi, data l’assoluta astrattezza di questa nozione, ed in particolare per la motivazione genetica dell’Irap come imposta sul dominio dei fattori produttivi.
Non per nulla la Cassazione ha ulteriormente rinviato alle Sezioni unite (ordinanza n. 5040 del 13 marzo 2015) la questione relativa al computo meramente numerico dei collaboratori rispetto alla valutazione di fatto – non sindacabile nel terzo grado di giudizio – se l’entità e la qualità del personale sia tale da consentire un effettivo rafforzamento della capacità di reddito del titolare.
E non dimentichiamo i principi costituzionali sul “potenziamento” del reddito, enunciati dalla Corte nella sentenza numero 10 di quest’anno, che hanno portato alla declaratoria di illegittimità della cosiddetta Robin Hood tax sugli ipotetici sovraprofitti delle società operanti nel settore energetico. Dice giustamente la Corte che una imposta che si pone questo obiettivo non può avere ad oggetto l’intera base imponibile. Posto quindi che l’Irap si vuole tassare il sovrareddito da dominio dei fattori produttivi, non può colpire anche quel reddito che il titolare avrebbe comunque conseguito in assenza dell'autonoma organizzazione.
Il 12 marzo di quest’anno il governo rispondeva al question time alla Camera, per l’Irap dei medici di medicina generale, evidenziando il contrasto giurisprudenziale su questo tema, tranquillizzando chi aveva posto il quesito sulla imminente sistemazione della materia con i decreti delegati della riforma fiscale.
Gli schemi erano stati annunciati per il 20 febbraio, e non sono mai arrivati in porto. Come si vede l’elusione non è solo da parte del contribuente, ma anche di chi avrebbe dovuto rispettare il precetto della legge delega.

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