Beneficiario effettivo, non basta il certificato del paese Ue
Il certificato dello Stato Ue che riconosce lo status di beneficiario effettivo, in base alla direttiva 2003/49 _recepita con il Dlgs 143/2005 che ha introdotto l’articolo 26-quater del Dpr 600/73 che esenta da ritenuta alla fonte gli interessi corrisposti ove il beneficiario sia un’impresa consociata sita in altro Stato membro - non costituisce «prova legale» e deve essere valutato nell’ambito del contesto nel quale opera la società beneficiaria degli interessi secondo il diritto civile, con riferimento alla sua struttura organizzativa ed all’attività sostanzialmente svolta. È questo il principio affermato dalla Ctr Lombardia con la sentenza 2707 depositata il 13 giugno 2018 (presidente Fanizza, relatore Candido) che si inserisce nell’ambito dei contributi al dibattito, attualissimo, sull’abuso delle direttive europee e dei trattati contro le doppie imposizioni, e sulle caratteristiche del «beneficiario effettivo».
L’agenzia delle Entrate, per negare i benefici convenzionali alla società lussemburghese privandola della qualifica di beneficiario effettivo, aveva svolto approfondite indagini che hanno riguardato in particolare le relazioni giuridiche intercorrenti tra il soggetto interposto e la fonte reddituale attraverso l’analisi delle attività svolte e dei rischi assunti dal soggetto interposto, o meglio non assunti nel caso specifico, che hanno portato ad accertare che l’interposto contribuiva alla produzione del reddito in misura formale ed equiparabile a un mero intermediario, circostanze che hanno convinto i giudici ad accogliere l’appello dell’Agenzia.
La Commissione tributaria non solo ha richiamato la normativa europea utile per contrastare gli abusi in materia di “channelling of funds”, oggetto del contenzioso, ma ha anche ricordato l’intervento del legislatore europeo con la direttiva 2016/1164 del 12 luglio 2016, in Italia con legge 163/17, nota come direttiva anti-elusione, Atad, con la quale è stato richiesto agli Stati membri di introdurre nei loro ordinamenti un livello minimo di norme volte alla prevenzione e al contrasto delle pratiche elusive poste in essere dalle imprese multinazionali, evidenziando il diverso approccio delle due direttive: con la prima si afferma il principio che non si deve porre ostacolo all’applicazione di disposizioni nazionali necessarie per impedire abusi o frode, con la seconda si richiede agli Stati membri di introdurre tali norme.
La controversia, con riferimento al finanziamento erogato da una società lussemburghese alle sue partecipanti italiane, era sorta a seguito della mancata ritenuta sugli interessi in quanto le parti ritenevano applicabile l’articolo 26 quater del Dpr 600/73 anche sulla base del certificato rilasciato dallo Stato comunitario attestante lo status di beneficiario effettivo alla società destinataria degli interessi corrisposti dalle consociate italiane. Tesi avallata dalla Commissione di 1° grado che accoglieva il ricorso.
La Ctr Lombardia è stata di diverso avviso ritenendo che la costruzione societaria realizzata in Lussemburgo, il cui 51% era detenuto dalle consociate destinatarie, insieme ad altre facenti parte dello stesso gruppo, dei finanziamenti, non svolgesse reale attività economica e costituisse in verità mero schermo, quale conduit, del reale beneficiario degli interessi, e cioè l’«Istituto» che effettivamente erogava i finanziamenti, socio al 49% della società lussemburghese, ma con azioni di classe “A” che conferivano il diritto di nominare, nel cda, due amministratori su tre, oltre ad assicurare la sia pur modesta gestione della società con proprio personale reso disponibile per 10 giorni a semestre e attivo solamente tre mesi dopo la costituzione della società lussemburghese. Oltre a individuare l’effettivo dominus della società interposta nell’«Istituto» che costituiva l’unico erogatore dei finanziamenti alla società lussemburghese (che risultava non aver mai svolto attività di “funding”) girati alle società del Gruppo sulla base di accordi preesistenti, i giudici confermavano che la gestione della società lussemburghese fosse quella tipica di conduit atteso che la restituzione dei finanziamenti, dalle società finanziate alla lussemburghese e da questa all’Istituto finanziatore, fossero identiche nelle date e negli importi, tutte operazioni caratterizzate dall’esclusione del rischio di credito e della valutazione del merito creditizio, rischio assunto dall’Istituto finanziatore, unico a svolgere attività di funding. Con il concreto risultato che la società lussemburghese, ha notato la Ctr, finiva per svolgere la mera attività di cassiere essendo tenuta a riversare all’«Istituto» i finanziamenti da essa erogati nei limiti di quanto restituito dalle società finanziate. I giudici notavano che fosse evidente che i veri accordi economici dei finanziamenti venivano definiti «altrove» tra i vertici dell’Istituto e il vertice del Gruppo finanziato evidenziando, tra l’altro, che il giorno dopo la costituzione della società conduit, l’Istituto metteva a disposizione un’ingente somma con il vincolo di girarla alle consociate del Gruppo, circostanza che dimostrava anche l’inesistenza, o comunque la non necessità, di una qualunque attività di coordinamento e di organizzazione reclamata dalla ricorrente.
La conclusione, secondo i giudici, non poteva che essere quella di negare i benefici convenzionali, anche considerato che risultava dimostrato che l’operazione era stata posta in essere in violazione delle norme vigenti in tema di abuso, disconoscendo alla società la qualifica di beneficiario effettivo in quanto conduit svolgente un ruolo meramente passante per far transitare le operazioni di finanziamento per evitare la ritenuta sugli interessi in uscita dall’Italia.