Adempimenti

Cessione di quote, linea dura della Cassazione: c’è la rilevanza penale

di Laura Ambrosi

La cessione di immobili mascherata da una cessione di quote con un’evasione di imposta superiore alla soglia penalmente rilevante configura il delitto di dichiarazione infedele. La comprovata volontà di cedere gli immobili e non le quote societarie non consente di invocare la scriminante dell’abuso del diritto che deve caratterizzarsi per l’assenza di attività simulatorie e fraudolenti. A fornire questa interpretazione (particolarmente rigida) è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 38016 depositata ieri.

Ma passiamo a esaminare i fatti. Il legale rappresentante di una società era stato condannato a un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di dichiarazione infedele (articolo 4, decreto legislativo 74/2000). Nella specie la società aveva dichiarato solo il 5% di una plusvalenza derivante dalla cessione di quote, esentando così il 95%, in applicazione del cosiddetto “regime Pex”. Secondo l’accusa, si era trattato in realtà di una cessione di immobili e non di quote, con la conseguenza che la plusvalenza doveva scontare la tassazione ordinaria. La condanna era stata confermata anche in appello e, pertanto, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione. Tra i diversi motivi, si lamentava che, in ogni caso, il fatto non costituiva reato poiché la censura di eventuali operazioni considerate abuso del diritto, con l’introduzione dell’articolo 10 bis dello Statuto del contribuente non avevano alcuna rilevanza penale.

La Corte ha innanzitutto precisato che con l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’abuso del diritto, non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive. Tuttavia la norma ha un’applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa. Nella specie, così come aveva verificato la Corte territoriale, dagli atti in causa si evinceva che le effettive intenzioni degli acquirenti, esternate già nei preliminari sottoscritti, erano di acquistare gli immobili e non le quote di una società del gruppo.

I giudici di legittimità in proposito hanno osservato che in applicazione della nuova norma sull’abuso, i fatti contestati sarebbero irrilevanti ai fini penali, ma in realtà l’imputato aveva adottato comportamenti simulatori preordinati a evitare la tassazione delle somme risultanti dalla cessione.

Secondo la Cassazione si era trattato di una “falsità ideologica” che aveva interessato il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per avere come obiettivo principale l’occultamento totale o parziale della base imponibile. Da qui la rilevanza penale della violazione contestata all’amministratore della società nonostante di fatto, si trattasse di un comportamento considerato “abusivo”.

La decisione fa certamente riflettere poiché seguendo tale interpretazione, l’irrilevanza penale espressamente voluta dal legislatore dei fatti considerati elusivi, rischia di trovare raramente concreta applicazione.

Qualunque operazione, infatti, censurabile come abuso del diritto (nel caso concreto resta discutibile anche la qualificazione come abuso) si traduce in realtà in una simulazione, in una falsità ideologica che interessa la dichiarazione presentata, non fosse altro perché ciò di cui si discute sono reati dichiarativi. Peraltro la sentenza fa riferimento a condotte simulatorie e fraudolente che, a ben vedere, sono estranee al delitto contestato di dichiarazione infedele mentre potrebbero interessare quello, più grave, di dichiarazione fraudolenta.

La sentenza n. 38016/2017 della Cassazione

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