Dalla flat tax all’equità: nuovo Fisco dimenticato
La promessa di avviare un percorso in grado di cambiare volto al sistema fiscale esce piuttosto ammaccata dai primi sei mesi di governo gialloverde.
La spinta verso il “nuovo fisco” – che aveva nella flat tax il suo pezzo di maggior pregio, giusta o sbagliata che fosse – è rimasta schiacciata tra i due pilastri delle politiche di M5S e Lega in campo economico, il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni, entrambi ancora in cerca del loro punto di equilibrio.
In realtà, un primo colpo alle ambizioni di Salvini e Di Maio lo si era già visto nel contratto di governo, dove lo shock fiscale sbandierato in campagna elettorale finisce per diventare «l’adozione di coraggiose e rivoluzionarie misure di riforma», per ridurre il prelievo e migliorare il rapporto tra amministrazione e contribuenti. Il contratto, naturalmente, scommette sulla flat tax per tutti (a due aliquote), alla quale arrivare in più anni.
Con la manovra si realizza l’altro downgrade delle promesse fiscali di M5S e Lega e nei provvedimenti di Bilancio c’è meno di quel poco indicato nel contratto. C’è grande enfasi sul regime agevolato per le piccole partite Iva, che – al di là di limiti e pericoli segnalati da più parti – sembra pensato per far passare l’idea che il percorso della flat tax sia stato avviato. Non c’è dubbio che i destinatari ne trarranno benefici, ma nessuno può ignorare che sull’altare della “quasi flat tax” per le partite Iva vengano immolate alcune misure fiscali non proprio irrilevanti, con la finalità di trovare le risorse necessarie a finanziarla. A partire dalla doppia soppressione di Ace e Iri, che non sarà compensata dall’aliquota Ires-Irpef agevolata su investimenti e assunzioni incrementali (9 punti in meno) prevista dalla manovra. Tra bonus ricerca e bonus Sud che sfumano, minori benefici per Industria 4.0, mancato rinnovo del superammortamento, il sistema produttivo si ritrova penalizzato proprio nel momento in cui il rallentamento dell’economia richiederebbe coerenti misure di sostegno. Qualcosa è destinata a cambiare in queste ore in Parlamento - dal recupero parziale dei benefici per la formazione in chiave 4.0 all’aumento della deducibilità Imu sui capannoni fino allo sconto sul cuneo fiscale legato ai premi Inail – ma non al punto da invertire il segno delle misure fiscali, che resterà decisamente negativo.
Altro capitolo è quello dei condoni. Qui è diventata più visibile la distanza che separa i due azionisti di governo. L’esito, però, è sconcertante: tanto rumore per nulla, vien da dire. Tutto rischia di ridursi al prolungamento di misure più o meno già previste negli ultimi anni o poco più. L’idea portante – tramontata subito l’illusione che il condono potesse accompagnare un’ampia riforma fiscale – era di fornire un aiuto concreto a quanti non avevano pagato le imposte perché in difficoltà a causa della crisi economica. Ipotesi assolutamente non verificata in nessuna delle nove sanatorie in arrivo, compresa l’ultima introdotta dal Parlamento, quella sugli errori formali, che molti considerano incomprensibile se non addirittura inutile (e anche sgradevolmente simile a una sorta di “tassa sulla tranquillità”).
E il resto, di cui pure si parla nel contratto? Maggiore equità fiscale; semplificazioni; nuovo rapporto tra Stato e contribuenti; abolizione dell’inversione dell’onere della prova; riduzione dei tempi di accertamento. Non pervenuti. Sulle tasse, insomma, continua a prevalere la logica degli interventi spot.
Una politica fiscale efficace e lungimirante è il risultato di scelte ponderate, di strategie organiche. Esattamente ciò che il governo gialloverde – ma spesso anche quelli che lo hanno preceduto – non può fare. Perché in questo clima da campagna elettorale permanente è più facile promettere soluzioni di grande effetto mediatico – vedi una flat tax declinata come fa più comodo – che non sforzarsi di individuare le misure davvero necessarie per la crescita del sistema paese.