Fallimento, lo stigma morale va in archivio
Oggi è davvero il caso di dire “tanto tuonò che (finalmente) piovve”. Ed è una pioggia assai benefica – e non a caso lungamente attesa dagli operatori – quella portata dalla riforma organica del diritto della crisi d’impresa, che allinea l’Italia alla maggior parte degli altri paesi europei, adeguandone in buona parte l’ordinamento ai principi elaborati in sede comunitaria (proposta di direttiva) e internazionale (Banca Mondiale e Uncitral).
La non celata ambizione sistematica è quella di creare una sorta di testo unico delle crisi d’impresa, con la sola eccezione dell’amministrazione straordinaria in quanto oggetto di stralcio. Ciò emerge chiaramente dai principi ispiratori della riforma, che nel dibattito successivo ai lavori della Commissione Rordorf hanno riscosso vasto consenso tra gli operatori, trattandosi di risposte a istanze ed esigenze largamente avvertite in campo economico. A cominciare dalle misure di allerta, ormai indifferibili nell’ottica della tempestiva emersione della crisi e non a caso fortemente volute anche all’estero (early warning), essendo ormai patrimonio comune la consapevolezza che la salvaguardia di complessi produttivi e livelli occupazionali passa in primo luogo dalla tempestività dell’intervento risanatore.
La prospettiva di successo di questi strumenti risulta opportunamente collegata, nella legge delega, a un sistema di incentivi e disincentivi, e al ruolo degli organi di controllo societari e dei creditori qualificati.
Nel meccanismo – va detto – c’è anche la presa d’atto della difficoltà di molte imprese a dar vita in modo autonomo a processi di ristrutturazione precoce a causa di ben noti fattori (sottocapitalizzazione, inadeguatezza degli assetti di governance, passaggi generazionali ecc.). Non meno importante è l’obiettivo della legge di semplificare e armonizzare le procedure, a partire dalla previsione di una fase iniziale unica e di un ambito di applicazione che va ben oltre l’imprenditore commerciale, coinvolgendo altresì attività di natura agricola, professionale e civile.
Sintomatica di un rilevante salto culturale è poi l’eliminazione della parola «fallimento», perché la crisi viene finalmente considerata come eventualità in qualche modo fisiologica per un’impresa e non più uno stigma morale.
Quanto al concordato preventivo, si è comprensibilmente incentivato quello con continuità aziendale, senza per questo affossare totalmente quello liquidatorio (a condizione che siano apportate risorse dall’esterno), sanzionando in ogni caso il ricorso abusivo alla strumento. E si sono chiariti aspetti di grande importanza pratica (dalla c.d. continuità indiretta alla moratoria ultrannuale dei creditori privilegiati al concordato misto), nell’ottica di limitare la disomogeneità delle prassi e di rendere le decisioni dei giudici, per quanto possibile, più prevedibili da parte degli operatori; mentre è stato espunto l’innovativo concordato del terzo, ritenuto foriero più di problemi che di opportunità. Come pure si è ampliato lo spettro applicativo degli accordi di ristrutturazione, valorizzandone le potenzialità inespresse con la previsione di presupposti meno stringenti. Né si è persa l’occasione per intervenire su crisi e insolvenza dei gruppi di imprese, individuando criteri all’insegna della “gestione unitaria” senza per questo deflettere dal principio di separazione delle masse attive e passive.
L’attenzione alla tutela dei creditori, del resto, continua a costituire – né poteva essere altrimenti – la stella polare del legislatore e presenta profili di emersione nuovi come la stabilizzazione del beneficio della prededuzione della nuova finanza e la possibilità di ottenere la revoca dell’automatic stay. Il bilanciamento dei diversi interessi in gioco appare, anche da questo punto di vista, congruamente realizzato, perché fra tutela delle imprese debitrici e protezione dei creditori si è costantemente ricercato un assetto efficiente ed equilibrato. E gli stessi obiettivi appaiono perseguiti nell’ambito del sovraindebitamento, rendendo la procedura più semplice e accessibile e dando più peso al fenomeno esdebitatorio. Molto opportunamente, infine, si è sancita la necessità di rivedere la disciplina dei privilegi (oggi una selva sempre più intricata), che a ben vedere costituisce il maggiore ostacolo – ben più del depotenziamento della revocatoria o delle classi nel concordato – al trattamento paritario fra i creditori.
Il materiale a disposizione di chi metterà mano ai decreti delegati è dunque ampio nelle dimensioni e largamente condivisibile nei contenuti. E non è forse enfatico definire storica la giornata di ieri, in cui il Parlamento, senza rinunciare a intervenire anche significativamente nel merito delle scelte (specie quelle più politiche, come le misure di allerta), ha approvato in tempi tutto sommato rapidi una riforma di questa portata, smentendo l’accusa di immobilismo in questo scorcio di legislatura e dando ragione a chi l’ha fortemente voluta a livello di Governo, agli stakeholders che sono stati costantemente coinvolti nel processo e, non per ultimo, a chi ha atteso al non semplice compito di condurre e coordinare i lavori della commissione