Il denaro per la frode non è un prestito
Chi “presta” del denaro sapendo che sarà utilizzato per emettere false fatture per operazioni inesistenti, non può certo far valere il suo diritto alla restituzione, perché lo scopo sotteso al prestito è contrario al buon costume. E se cerca di riavere indietro i soldi con metodi violenti, commette il reato di usura, senza poter “aspirare” al meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La Corte di cassazione, con la sentenza 9494 depositata ieri, respinge il ricorso di uno dei numerosi imputati coinvolti in un procedimento relativo ad una serie di reati: usura, frodi fiscali e associazione per delinquere. In questo contesto si inseriva la richiesta di un ricorrente, condannato per estorsione, di ottenere una condanna meno grave per un reato minore. Sconto di pena al quale l’imputato riteneva di aver diritto, perché le frasi violente, dirette al sodale al quale aveva prestato del denaro, erano finalizzate ad una legittima restituzione che veniva negata. Il reato ipotizzabile era dunque l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Ma, con una lezione di morale, la Cassazione spiega che così non è.
Chi presta soldi finalizzati a commettere reati tributari - nello specifico all’emissione di fatture false per operazioni inesistenti - non può richiederli indietro, perchè lo scopo del prestito “indecente” è contraria a norme imperative e anche al buon costume. Un concetto che non può restare limitato alla sfera del pudore sessuale e della decenza ma che va esteso a tutti i “negozi” contrari all’etica e alla coscienza morale collettiva. E “il contratto” stipulato dal ricorrente rientra tra questi. Nell’attuale momento storico - afferma la Cassazione - in cui il legislatore sia interno sia comunitario è impegnato in una lotta strenua contro gli evasori fiscali, questi ultimi sono sempre più considerati dalla comune coscienza sociale, come malfattori. La Suprema corte rincara la dose ricordando che si tratta di malfattori particolarmente pericolosi perché da una parte sottraggono risorse allo Stato e dall’altra, «non solo si avvantaggiano, in modo parassitario, dei servizi comuni che vengono finanziati con le tasse che gli altri pagano, ma fanno anche concorrenza sleale agli imprenditori onesti, inquinando quindi l’economia e distorcendo le dinamiche della struttura produttiva in cui l’evasione è praticata». Basta dunque per intuire che il reato non è derubricato, visto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è ipotizzabile solo in presenza di una pretesa che si può far valere in giudizio. E non è questo il caso. Non passa neppure la pretesa di un altro ricorrente di considerare estinto il reato di emissione di fatture o altri documenti relativi e operazioni inesistenti. La Cassazione precisa, infatti, che il reato previsto dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000, avendo natura istantanea si perfeziona nel momento di emissione di ogni singola fattura o, nel caso di più episodi nello stesso periodo di imposta, nel momento di emissione dell’ultima . Questo anche se sono rilasciate più fatture per uno stesso periodo di imposta.