Imposte

Il patent box «chiarisce» il credito R&S

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di Stefano Mazzocchi

La recente circolare del ministero dello Sviluppo economico (la n. 59990 del 9 febbraio 2018) non ha dissipato tutti i dubbi sulle modalità con il quale il software possa o meno essere ricompreso nell’agevolazione per l’ottenimento del credito d’imposta per ricerca e sviluppo.

Il ministero, pur nello sforzo interpretativo di dare un inquadramento sistematico, non è riuscito completamente nell’intento prefissato. A dire la verità, il compito non era facile soprattutto perché nell’occasione è stata individuata una strada interpretativa che potremmo definire autonoma ed in parte svincolata dalle precedenti prese di posizione delle Entrate in materia. La dimostrazione di questa volontà ha condotto il Mise a richiamare solo in parte e in modo molto limitato tutta la prassi prodotta dall’Agenzia in questi anni di applicazione dell’agevolazione (si veda la parte finale della circolare).

Innanzitutto, il Mise richiama quanto affermato dall’Ocse sul legame fra la produzione di software e “quando e come” tale produzione debba qualificarsi come un’attività di ricerca e sviluppo, rinviando al Manuale di Frascati (edizione aggiornata da ultimo nell’ottobre 2015).

Il ministero precisa che nel caso in cui il software sia il prodotto finale, l’innovazione in esso trasfusa può essere intesa solo come incrementale in termini di conoscenza, e quasi mai radicale. Tuttavia, argomentando sulla questione della dimensione e della natura dell’innovazione, il Mise (anche per la complessità della materia) non distingue in modo netto fra l’innovazione di prodotto e quella di processo. Analizzando l’innovazione del prodotto “software”, la circolare ministeriale non richiama la risoluzione 28/E del 9 marzo 2017 nella quale l’Agenzia descrive in modo molto chiaro cosa debba intendersi per attività di sviluppo, mantenimento e accrescimento di un software protetto da copyright, nell’ambito di un interpello sul ptent box.

Come è noto, il patent box è un’agevolazione riconosciuta ai soggetti che impieghino beni immateriali, a condizione che la stessa società che ne voglia usufruire abbia sostenuto e sostenga le spese connesse di ricerca e sviluppo. Il caso affrontato dall’Agenzia concerne una società che ha ideato e sviluppato un software gestionale che è dedicato alle sole imprese del settore manifatturiero. Compiute queste debite premesse, il caso è di grande interesse poiché l’Agenzia accoglie positivamente l’istanza di detassazione dei redditi provenienti dalla concessione in uso a terzi del software a condizione che lo stesso sia originale e “quale risultato di creazione intellettuale dell’autore”. Ma tale concessione in uso (e la relativa detassazione) concerne anche “le attività di implementazione, personalizzazione e customizzazione del software, in considerazione dell’obbligatorietà, prevista dalla norma, di svolgere un’attività di ricerca e sviluppo”. Quindi l’Agenzia afferma indirettamente che l’agevolazione del patent box e conseguentemente anche il credito d’imposta per R&D spettano a condizione, da un lato, che il software sia protetto in termini di diritti d’autore e, dell’altro, che la stessa azienda abbia sostenuto e sostenga le spese di ricerca e sviluppo necessarie ed inerenti al software medesimo.

Se l’innovazione non è di prodotto, può essere alternativamente classificata “di processo”, che sostanzialmente si tramuta in un nuovo modo di produzione di beni e/o di erogazione di servizi. In questo caso, è necessario comprendere se il software acquistato o prodotto internamente possa rientrare fra gli investimenti agevolabili.

Il caso classico si ha qualora il software abbia contribuito, in quota parte, alla realizzazione di un progetto di ricerca e sviluppo, consentendo un miglioramento come meglio delineato dalla norma (cfr. il punto 2.1 della circolare 5/E/2016). Tentando di inquadrare la profilazione del problema si potrebbero prospettare le seguenti situazioni:

a) acquisto della titolarità di un software protetto;

b) semplice acquisto di una licenza d’uso di un software protetto;

c) realizzazione interna di un software non tutelato da parte di personale qualificato interno;

d) sviluppo esterno di un software personalizzato non tutelabile.

Nel primo caso l’investimento rientra fra le competenze tecniche, così come chiarito esplicitamente al punto 4.5.1 della circolare 13/E/2017.

Sempre la stessa circolare, analizza il secondo caso e la risposta sulla positività dell’investimento non è così evidente. Infatti, il documento di prassi afferma che “l’acquisizione di conoscenze e informazioni tecniche” rientrano fra le competenze tecniche agevolabili e più in generale “l’acquisto di quei beni immateriali, già esistenti sul mercato…che non sono oggetto di contratto di ricerca extra muros”. Nel caso di specie le licenze d’uso rientrano a pieno titolo fra le immobilizzazioni immateriali e sono già esistenti sul mercato, come la circolare sottolinea. Tuttavia, sul punto, la circolare richiama solo l’acquisto di programmi e non le spese per licenze d’uso del software, anche se nel punto richiamato (4.5.1.), si fa menzione esplicitamente delle sole “licenze di know how”. A parere di chi scrive parrebbe solo una dimenticanza il mancato richiamo delle spese sostenute per le licenze d’uso per software protetti.

Nel terzo caso, avremo che del personale qualificato con laurea (attinente al settore informatico) abbia scritto o implementato il software non tutelato per consentire la realizzazione di un nuovo processo migliorato. In questa evenienza si ritiene che il costo del personale dedicato debba essere incluso nel calcolo del credito d’imposta spettante.

Nell’ultimo caso, infine, i costi per la realizzazione del software possono a pieno titolo rientrare fra gli investimenti ammessi, come ribadito al punto 4.3.7 della già citata circolare 13/E/2017, sempreché il committente abbia fornito delle specifiche sulle attività di elaborazione da effettuarsi e l’inquadramento giuridico rientri fra i contratti di ricerca extra muros.

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