Immobili destinati ad attività di culto senza rendita catastale
Secondo la Ctr Umbria questo tipo di fabbricati sono inidonei a produrre qualsiasi tipo di reddito
Agli immobili classificati nella categoria catastale E/7, utilizzati per le attività del culto, non deve essere associata alcuna rendita catastale. A stabilire l’assunto è la Ctr Umbria (sentenza n. 55/02/2020 – Presidente Rolfo) che, confermando la decisione dei giudici di primo grado, ha considerato illegittima l’attribuzione della rendita catastale agli immobili in questione.
Domanda di accatastamento
La vicenda nasce dalla richiesta di accatastamento proposta da un ente religioso per un immobile destinato all’esercizio del proprio culto aperto al pubblico e come tale iscrivibile in categoria E/7. Coerentemente con le disposizioni di cui alla massima 59, allegata alla circolare del ministero delle Finanze n. 134/1941, e all’articolo 36, comma 3 del Tuir (Dpr n. 917/86), l’ente, in sede di iscrizione in catasto, omette ogni indicazione di rendita catastale, tenuto conto che i fabbricati accatastati in E/7 «si assoggettano o meno alla determinazione della rendita catastale, secondo che siano ceduti in affitto o gratuitamente» e che «non si considerano produttive di reddito, se non oggetto di locazione, le unità immobiliari destinate esclusivamente all’esercizio del culto».
Le conclusioni
Per di più, l’articolo 6 del Regio decreto n. 652/39 ha escluso ogni obbligo di iscrizione in catasto per gli immobili di cui si discorre, rafforzando la tesi secondo cui, al di là di esclusioni ed esenzioni previste da specifiche leggi di imposta, gli stessi sono considerati assolutamente inidonei a produrre – se non in ipotesi di locazione – alcun reddito.
Pertanto, associare una rendita catastale che, come noto, ha la funzione di identificare proprio la potenzialità di reddito espressa da un immobile, ad un fabbricato strutturalmente incapace di generarlo, rappresenterebbe una contraddizione di fatto.
La risposta delle Entrate
L’agenzia delle Entrate, dal canto proprio, aveva rettificato la richiesta di iscrizione e attribuito d’ufficio una rendita. A supporto del proprio operato, il Fisco evidenziava che gli immobili adibiti al culto non sono più indicati tra quelli non iscrivibili in catasto, ai sensi dell’articolo 3, comma 2 del Dm n. 28/98 e che l’attribuzione della rendita avviene solo a fini statistici, non compromettendo la spettanza alle esenzioni fiscali (citava una pronuncia della Cassazione, la n. 20537/2016, dove però il contribuente aveva in proprio attribuito una rendita in fase di accatastamento e in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento, con cui veniva innalzato il valore della rendita, ne chiedeva inopportunamente l’azzeramento).
Le motivazioni del rifiuto
Il collegio umbro ha però disatteso le richieste del Fisco sulla scorta di alcune considerazioni puntuali. Prima di tutto ricordando come l’Agenzia, con Nota 10/5/2003, prevede che per gli immobili classificati nella categoria E/7 non è obbligatorio proporre una rendita; inoltre, continuano i giudici, la circolare n. 6/12 rimanda esplicitamente all’Istruzione III del 28/6/42, in cui si specifica che «non si determina la rendita catastale per le unità immobiliari accertate nelle cat. D e E …che abbiano diritto all’esenzione permanente dall’imposta fabbricati».
Con risoluzione n. 1/E/20 la stessa amministrazione finanziaria ribadisce che le nuove costruzioni di immobili da adibire al culto non necessitano dell’iscrizione al catasto edilizio urbano, circostanza questa che svilisce le invocate esigenze inventariali. Sarebbe, pertanto, un’anomalia pretendere che quelli già realizzati fossero iscritti con l’attribuzione di una rendita, generando una evidente disparità di trattamento.
L’esaustiva argomentazione della commissione dovrebbe servire a mettere la parola fine su una vicenda che, nonostante una giurisprudenza che le è prevalentemente avversa, vede l’amministrazione imperterrita sulle proprie tesi.