L’accertamento parametrico vincola al contraddittorio
I parametri, riproducendo il compendio della proiezione statistica di una molteplicità di informazioni settoriali conseguite dall’analisi dei dati afferenti ad archetipi di contribuenti e dalle correlate dichiarazioni dei redditi, palesano valori che, nell’ipotesi in cui oltrepassano il dichiarato, perfezionano il presupposto per l’esercizio legittimo dell’accertamento analitico-induttivo, ex art. 39 co. 1 lett. d) del Dpr 600/1973, da parte dell’amministrazione finanziaria. Tale metodologia accertativa necessita di essere affrontata in contraddittorio con il soggetto accertato in capo al quale, sia nella fase amministrativa e sia in quella contenziosa, pesa l’onere di addurre e di dimostrare, senza vincoli di mezzi e di argomentazioni, la fondatezza di congiunture di fatto tali da discostare la sua attività dal campione normalizzato al quale i parametri fanno riferimento e da legittimare la generazione di un reddito inferiore a quello stimato seguendo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ufficio è attribuito l’onere di comprovare l’applicabilità dello “standard” selezionato al caso effettivo oggetto di accertamento (Cass. civ. Sez. V Sent. n. 3415/2015). A tali conclusioni è giunta la Corte di Cassazione attraverso l’ordinanza n. 12247/2017, depositata in cancelleria il 17 maggio 2017.
Tuttavia il risultato espresso dai parametri rappresenta esclusivamente un dato standard mediano, rilevatore di una potenziale irregolarità del comportamento tributario del contribuente, tra l’altro ben più grossolano di quello scaturente dall’impiego degli studi di settore. Tale banale anomalia autorizza però l’emissione, da parte dell’agenzia delle Entrate, di un invito al contraddittorio nei confronti del contribuente.
Nel contesto del contraddittorio, che si rivela essere obbligatorio malgrado la mancanza di una esplicita previsione normativa, il risultato normalizzato scaturente dall’applicazione dei parametri deve necessariamente essere personalizzato, in attinenza alla peculiare condizione in cui versa il contribuente. Solo in tale contesto si può giungere ad affermare che possono eventualmente formarsi i requisiti di gravità, precisione e concordanza specifici delle presunzioni semplici. Naturalmente le menzionate prerogative acquisiranno rilevanza esclusivamente nel processo tributario in quanto, solamente nel caso in cui durante il contraddittorio le parti non giungano a un “accordo” e di conseguenza l’agenzia delle Entrate proceda con l’emissione di un avviso di accertamento, il giudice sarà chiamato a valutare se l’imprescindibile personalizzazione dell’informazione standard fornita dai parametri, avvenuta nel corso del contraddittorio e obbligatoriamente ricondotta nell’avviso di accertamento a pena di nullità, concretizza le prerogative di gravità, precisione e concordanza tipiche delle presunzioni semplici. Verificatosi tutto ciò, la presunzione semplice può delinearsi compiuta assumendo, di fatto, le medesime peculiarità di una presunzione legale relativa, trasferendo in capo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria.
Il soggetto, in questo ambito, dispone della più ampia facoltà di prova, perfino attraverso ulteriori presunzioni semplici, avendo l’ulteriore possibilità di determinare, per la medesima annualità, il ben più complesso risultato scaturente, determinato attraverso l’applicazione degli studi di settore.
Risulta opportuno segnalare, tra le pronunce giurisprudenziali rilevanti, quelle che hanno reputato i parametri del tutto illegittimi in quanto sviluppati sulla base di due decreti governativi varati senza la preventiva acquisizione del parere del Consiglio di Stato, in totale trasgressione di quanto disposto dal co. 4 dell’art. 17 della legge n. 400/1988 in materia di regolamenti governativi e ministeriali.
Relativamente al riconoscimento degli atti qualificabili come regolamenti, richiamati dall’art. 17 della legge n. 400/1988 – vengono impiegate le metodologie individuate dalla Suprema Corte attraverso la sentenza a Sezioni Unite n. 10124/1994. Nella menzionata pronuncia, il collegio di legittimità ha sostenuto che i regolamenti «sono espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti che presentano, appunto, i caratteri della generalità e dell’astrattezza, intesi essenzialmente come ripetibilità nel tempo dell’applicazione delle norme e non determinabilità dei soggetti cui si riferiscono».
La Corte di Cassazione, avendo definito in questo modo i regolamenti, ha reputato che, nel rispetto di quanto disposto dall’art. 17 della legge n. 400/1988, l’utilizzo della autorità normativa conferita al Governo debba ineluttabilmente realizzarsi mediante l’ottemperanza al peculiare modello procedimentale disciplinato dalla norma, seguendo il quale per l’emanazione dei regolamenti di pertinenza governativa è necessario acquisire il parere del Consiglio di Stato. L’osservanza di tale procedura assicura, di fatto, che siano effettuate adeguate verifiche su un provvedimento, varato dall’esecutivo, che costituisce una disposizione a tutti gli effetti vigente nel nostro ordinamento.
L’ordinanza n. 12247/2017 della Cassazione