Il CommentoImposte

L’agenzia delle Entrate scivola sul pallone

di Maurizio Leo

Desta più di qualche perplessità il chiarimento fornito nella corposa circolare post-natalizia n. 33/E del 2020 dell’agenzia delle Entrate (si veda il Sole 24 Ore del 29 dicembre), sull’impossibilità, nell’immediato, di applicare il regime speciale riservato dal decreto Crescita 2019 (Dl 34/2019) agli sportivi professionisti impatriati.

La storia è nota. L’articolo 5 di quest’ultimo decreto, nell’ampliare e potenziare il regime degli impatriati, già disciplinato dal decreto Internazionalizzazione 2015, ha introdotto uno specifico comma 5-quater, riservato agli atleti trasferitisi in Italia dopo due anni di residenza estera, in particolare consentendo la detassazione del 50 per cento dei redditi da questi prodotti nel nostro Paese. Tale previsione, già di per sé penalizzante per il mondo dello sport rispetto alla generalità degli impatriati (che detassano il 70 del reddito o il 90 per cento, in caso di trasferimento nelle regioni meridionali), rischia oggi – a distanza di ben due anni dalla sua introduzione e (vantaggiosa) applicazione – di risultare lettera morta.

Infatti, con un’interpretazione tranchant, la circolare 33/E – che si conforma, sul punto, a un parere del Mef – ritiene di dover disconoscere l’applicazione del regime agevolato degli sportivi impatriati in attesa dell’emanazione del decreto attuativo previsto dal comma 5-quinquies. Decreto, quest’ultimo, che – si badi bene – sembrerebbe dover solo stabilire come allocare il contributo dello 0,5% che, chi si avvale dell’opzione, deve versare per il potenziamento dei settori giovanili. Insomma, il Dpcm al quale si ritiene subordinato l’avvio del regime in parola non sembra avere la funzione di attuare la normativa del comma 5-quater (recante una disciplina che si ritiene già compiuta e di piena efficacia), ma unicamente di fissare i criteri attuativi del comma 5-quinquies (allocazione del contributo straordinario ai settori giovanili).

Tali conclusioni, a dirla tutta, oltre a non essere convincenti sul piano dell’esegesi normativa, rischiano anche di ledere principi cardine dell’ordinamento, quali il legittimo affidamento e la buona fede, con conseguenze economiche, finanziarie, sanzionatorie e industriali rilevanti per tutto il mondo dello sport italiano. Nell’ultimo biennio, infatti, proprio facendo affidamento su tale disposizione, specialmente le big company del calcio nostrano sono state in grado di attrarre in Italia calciatori (e allenatori) di primo livello, con ritrovata competitività e appeal della nostra serie A, che è, pur sempre, una delle principali industrie del Paese. E un analogo effetto “traino” si è pure registrato per altri sport professionistici.

In effetti, se è vero che il disconoscimento dovrebbe teoricamente essere solo “a tempo” (ed essere recuperabile “a ritroso” una volta emanato il Dpcm), è pur vero, a questo punto, che nessuno è in grado di garantire se e quando questo tempo scadrà. L’incertezza sulla pubblicazione del decreto attuativo, che ormai si protrae da tempo, non è una buona notizia per la valutazione delle scelte attuali e prospettiche degli operatori.

Nel frattempo, si potrebbero registrare conseguenze già nell’immediato. Si considerino i possibili riflessi sanzionatori, in capo alle società sportive, per la mancata effettuazione delle ritenute su una parte dei compensi corrisposti, qualora non ne fosse apprezzata la buona fede o non fosse riconosciuta l’esimente per incertezza normativa. Potrebbero persino integrarsi conseguenze penali sui rappresentanti aziendali, qualora si ritenesse applicabile quell’orientamento – in vero non condividibile – che vuole il reato ex articolo 4 del Dlgs 74/2000 configurabile anche in ipotesi di infedele dichiarazione del sostituto d’imposta. Senza considerare, poi, che tali società avranno difficoltà a rivalersi sui propri atleti per le minori imposte versate (e contestabili dall’Amministrazione finanziaria), tenuto conto della tipica prassi di negoziazione “al netto” dei compensi sportivi. Infine, è concreto il rischio di dover ridefinire (o, peggio, risolvere) taluni contratti di lavoro in essere, date le mutate condizioni fiscali, idonee a rendere tali contratti ben più onerosi, anche con possibili ripercussioni sulle negoziazioni future e la competitività, a livello internazionale, del nostro sistema sportivo.

Il tutto, come spesso accade, nonostante un quadro normativo che, fino a pochi giorni fa, non lasciava rilevanti dubbi e sul quale le società hanno fin qui fatto affidamento nel realizzare investimenti e portare avanti trattative, spesso di importo rilevante. In altri termini, la pianificazione strategica dello sport professionistico italiano a tutti livelli rischia, per i prossimi anni, di essere fortemente condizionata dalla posizione in commento.

La circolare n. 33/E appare un vero e proprio fulmine a ciel sereno, che potrebbe innescare l’ennesimo filone contenzioso fra Fisco e contribuenti, in un contesto, quello dello sport, non nuovo a “rapporti tormentati” con l’Erario. La sensazione, però, è che, mai come questa volta, applicando i principi generali tributari il campo possa dar ragione al contribuente, della cui buona fede, nel caso di specie, è assai difficile dubitare. Il paradosso, poi, nelle more dell’emanazione del Dpcm, è che, venuta meno la possibilità di applicare la norma speciale dedicata agli sportivi, si possa invocare la regola di detassazione di portata generale sugli impatriati, addirittura più favorevole, con un risultato che – sempre per mutuare il linguaggio dello sport – sarebbe un vero e proprio autogol.

La vicenda ricorda quanto importante sia la qualità della legislazione tributaria, confermando quanto deprecabile sia la prassi di rinviare costantemente alla normazione secondaria di dettaglio.