Controlli e liti

L’antieconomicità va sempre dimostrata

di Dario Deotto

Molte volte i rapporti tra i professionisti e la società di servizi riconducibile agli stessi vengono contestati anche in ragione di una presunta antieconomicità (così come le contestazioni sull'antieconomicità sono frequenti nel mondo delle imprese, si veda Il Sole 24 Ore di ieri).

L'antieconomicità è questione che – per consolidata giurisprudenza – va inquadrata nel principio dell'inerenza.

L'inerenza rappresenta, sia nella determinazione del reddito d'impresa che in quello di lavoro autonomo, la regola che identifica il necessario collegamento che vi deve essere tra un componente economico e l'attività esercitata. Si può dire che, dal punto di vista fiscale, l'inerenza coniuga il principio di capacità contributiva in quanto la deduzione di un componente negativo di reddito, nella determinazione di quello d'impresa o di lavoro autonomo, non rappresenta una gentile concessione da parte del legislatore, ma interviene direttamente in funzione detrattiva nella determinazione del presupposto da sottoporre a tassazione. In sostanza, il reddito va assunto nella sua unitarietà, laddove i costi e le spese svolgono una funzione diminutiva rispetto ai componenti positivi di reddito. È quindi lecito affermare che la possibilità di dedurre i componenti negativi di reddito non rappresenta una norma di favore, ma è legata all'esigenza di misurare la capacità economica del presupposto d'imposizione. Così l'inerenza può essere definita quel collegamento che vi deve essere tra i vari componenti, sia positivi che negativi, con la funzione economica svolta (imprenditoriale o professionale). Se non c'è questo collegamento con l'attività, queste poste non possono essere considerate inerenti.

Di conseguenza, se l'ufficio nega completamente la deduzione di un componente negativo di reddito in quanto ritenuto antieconomico, e quindi non inerente, deve allegare i fatti e descrivere le ragioni per le quali la spesa non presenta un collegamento con l'attività esercitata. Si fa riferimento ad un onere di allegazione e non di prova perché, in realtà, le rettifiche sull'inerenza non abbisognano di prova. L'onere della prova trova applicazione per i fatti (articolo 2697 del Codice civile) quando quelli oggetto della decisione risultano incerti. Per l'inerenza, però, non sono quasi mai i fatti che vengono posti in discussione, cioè se quella spesa, ad esempio, è stata effettivamente sostenuta. Per l'inerenza quello che rileva è se il componente economico, generalmente la spesa o il costo, ha un collegamento o meno con l'attività esercitata, che è una questione valutativa. Di conseguenza, le parti hanno, più propriamente, un onere di allegazione dei fatti posti a fondamento delle proprie tesi. L'ufficio deve quindi allegare, nell'atto di accertamento, i fatti e le ragioni per le quali ritiene che determinati componenti economici non hanno alcun collegamento con l'attività, mentre il contribuente, da parte sua, dovrà allegare i fatti e le ragioni per le quali ritiene che gli stessi componenti hanno un legame con l'attività.

Se invece l'ufficio ridetermina percentualmente (o a forfait) al ribasso l'entità di una spesa che ritiene troppo elevata, si è nell'ambito delle rettifiche disciplinate dal secondo periodo del comma 1, lettera d), dell'articolo 39 del Dpr 600/1973, le quali si basano su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. In questo caso, non c'è dubbio che l'onere probatorio ricada sull'Agenzia, la quale deve dimostrare in giudizio che gli elementi presuntivi fondanti la rettifica hanno i caratteri di gravità, precisione e concordanza.

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